di Matteo Maria Zuppi
Il sentimento che provo è quello della gratitudine per il servizio instancabile di “don Massimo” alla Chiesa e al mondo, vissuto con rigore e tanta umanità, unendo preparazione attenta e mai superficiale con una sensibilità penetrante e diretta, familiare ma non autoreferenziale, sempre teso a rispondere alla chiamata di Dio. Lo ringrazio anche per la sua personale amicizia, che ho sempre avvertito schietta e che mi ha accompagnato per tanti anni a Roma, nel mondo e in questi ultimi anni in terra emiliana.
Grazie perché la missione nella grande messe del mondo è stata sempre la vera prospettiva del suo servizio. Senza questa non si comprende la sua “corsa”. L’ esperienza del Vangelo entra nella storia, diventa compagnia, amicizia, fraternità, cultura, ma sempre con un orizzonte largo. È questo che permette di non perdersi nelle discussioni così facili e paralizzanti, nelle contrapposizioni ideologiche che hanno poco a che vedere con la passione evangelica e con il sensus ecclesiae che è così indispensabile.
Vorrei tra le tantissime e certamente più complete esperienze, ricordarne una, che mi colpì molto per il tratto personale con cui don Massimo si confidava agli ascoltatori. Dovevamo partecipare assieme ad un convegno in una parrocchia della sua Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla. Proprio la notte precedente don Massimo si sentì male e, ricoverato in ospedale la mattina stessa dell’incontro, venne operato d’urgenza proprio mentre si svolgeva il convegno. Sarà stato anche per questo coinvolgimento emotivo che ascoltai la sua relazione – preparata sempre con tanta cura come segno di amore e rispetto per gli interlocutori e per il proprio servizio – con molta commozione. In essa vi ho trovato dei tratti così personali che voglio condividerli perché li ho percepiti come un filo che ho ritrovato nelle sue scelte e che lo porterà a scrivere altri capitoli del libro così ricco della sua vita.
Si parlava di don Mazzolari e don Tonino Bello. Scoprii il suo antico amore per la lettura. «Agli inizi degli anni Cinquanta cominciai a notare che mio padre riceveva il quindicinale “Adesso”. Questo giornale era stato fondato nel 1949 da Mazzolari. Egli ne era stato anche il direttore. Nel 1951 “Adesso” fu però chiuso dall’autorità ecclesiastica. Io ero un lettore accanito di “Adesso”. Frequentavo allora le scuole elementari, leggevo tutto ciò che trovavo in casa, e “Adesso” era una delle mie letture più attente e anche più scioccanti. Mi ricordo il sottotitolo: “Ma adesso chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una” (Lc 22,36). Una frase del Vangelo che non avevo mai notato. Da questo capivo che “Adesso”, cui collaborò anche don Milani, era un testo di battaglia, una battaglia che Mazzolari e i suoi amici compivano all’interno della Chiesa e della società. Naturalmente, piccolo com’ero, non potevo comprendere i termini storici di questa battaglia. Ma la scrittura di “Adesso” mi affascinava. Il giornale era soprattutto un invito alla libertà. In particolare alla libertà dagli schemi con cui si guardava normalmente la realtà politica, sociale ed ecclesiale del nostro Paese.
E perciò, a poco a poco, cominciai anche, man mano che uscivano, a leggere i libri che parlavano di Mazzolari, o quelli che raccoglievano i suoi scritti, le sue omelie. In casa mia entrarono anche i libretti editi da La Locusta, che pubblicavano alcuni testi di Mazzolari: ricordo “La parrocchia” (1957); “Tu non uccidere” (1955); “La parola che non passa” (1953). E poi altri testi: “Impegno con Cristo”, del 1943; “Il compagno Cristo, Vangelo del reduce”, del 1945; “Accettiamo la battaglia”, del 1947; “I preti sanno morire”, del 1958 (un anno prima della sua morte). Non ho mai più dimenticato quelle pagine. Nei titoli c’è già tutto un programma. Ascoltai anche dei dischi con la sua voce: “Fratello Giuda”, lo ricordo bene, era il titolo di uno di questi. Vorrei citare un brano, tratto da “Coscienza sociale del clero” (testo del 1947), che mi sembra essere significativo del pensiero di don Primo e molto significativo anche per noi oggi: “Per camminare bisogna uscire di casa e di Chiesa, se il popolo di Dio non ci viene più; e occuparsi e preoccuparsi anche di quei bisogni che, pur non essendo spirituali, sono bisogni umani e, come possono perdere l’uomo, lo possono anche salvare. Il cristiano si è staccato dall’uomo, e il nostro parlare non può essere capito se prima non lo introduciamo per questa via, che pare la più lontana ed è la più sicura. […] Per fare molto bisogna amare molto”».
A queste osservazioni, che rivelano in realtà non solo la grandezza di don Mazzolari ma anche la visione di don Massimo, aggiunse queste parole conclusive. «Mi colpiva molto da ragazzo, negli scritti di Mazzolari, il tema dei poveri. Si tratta di un tema che allora non sentivo affrontato nella Chiesa, che sentivo soltanto da lui. Nel suo diario ho trovato queste righe: “Chi vuol essere fedele al Vangelo deve essere disposto a preferire la povertà alla ricchezza… e tra le forze, l’Amore, e tra i privilegi, il più pericoloso: la libertà”. Il suo era un modo non sociologico, ma profondamente evangelico di affrontare la realtà dei poveri tra noi. Ma ancor di più mi impressionava il fatto che intorno a questo prete fosse nata una comunità di persone: in lui c’era un dono particolare, che attirava, ben al di là della sua parrocchia e dei suoi scritti. Molti lo cercavano e lo seguivano: questo elemento è importante per comprendere che davvero Dio ha utilizzato la sua persona per dire alla Chiesa una parola vera e feconda».
«E così per me il ricordo di Mazzolari è inscindibile dal ricordo della mia crescita, di ragazzo e di adolescente. Dal ricordo di mio padre e da quella domanda che non gli ho mai fatto: Come hai conosciuto Mazzolari? Chi te lo ha fatto conoscere? Perché lo leggi? Perché ti sei abbonato ad “Adesso”? Una domanda che ormai devo assolutamente rinviare oltre il tempo»
Ecco, il perché del grazie. Non ha smesso di leggere, di prepararsi, di interrogarsi per cercare le risposte non sociologiche ma della migliore sociologia che è la compassione evangelica e, allo stesso tempo, aiutare altri a farlo, rendendo concreto il Vangelo nella storia, sempre con un senso di obbedienza pieno alla Chiesa, senza fare mancare l’originale contributo. Faccio mio l’augurio con cui don Massimo ha concluso l’intensissima e commovente cerimonia di commiato per don Anas. «Amare tutto ciò che ci lega a Cristo e disprezzare tutto ciò che ci allontana da lui». Ecco. Grazie caro don Massimo di averci aiutato a farlo. Ad multos annos!