Eugenio Bonanata e Daniele D’Elia – Città del Vaticano
Oggi il cardinale Comastri parla di Giovanni Papini soprannominato la “belva di Firenze”. Grazie a Maria, anche quest’uomo si converti. E quando morì si disse, ancora, di lui: “la belva è divenuta un agnello”. Lo scrittore fu garibaldino, ateo e anticlericale. Del 1912, all’apice del suo anticlericalismo, scrisse “Le memorie d’Iddio”. Nel libro, di stampo profondamente nichilista, Dio si augura il proprio annientamento dovuto alla scomparsa delle fede sulla terra. Negli scritti immediatamente successivi possiamo intravedere, afferma Comastri, già qualche barlume di una ricerca affannosa e struggente della fede. Infatti avverte nel suo animo che l’ateismo è la causa di ogni disperazione.
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Negli anni venti del ‘900, Papini scrive infatti ad un amico Domenico Giuliotti e gli confessa di aver avuto il desiderio di recitare l’Ave Maria. Lo stesso amico risponde: “hai invocato la Madonna? Tra poco dirai Credo”. Del 1921 è “Storia di Cristo”, un libro meraviglioso. Nella scrittura Papini è stato “quasi sollecitato e sospinto da una forza più forte di lui”, leggiamo nella prefazione, ed il libro stesso è un “insufficiente espiazione” delle colpe precedenti dell’autore. E parafrasando le parole dello scrittore, Comastri ricorda che la Misericordia di Dio non può essere vinta. E viene citata anche una preghiera scritta da Papini in cui egli, addirittura afferma, rivolgendosi a Dio “vorrei diventar come il filo dell’erba che nel tuo campo ciascuno calpesta”.