La popolazione si prepara a trascorrere un secondo inverno in piena guerra. Alla minaccia di nuovi black-out e di mancanza di riscaldamento si aggiunge, per le persone sfollate, l’assenza di prospettive di ritorno a casa. Devono così reinventarsi una vita, con l’aiuto anche della Chiesa greco-cattolica, come nella regione di Lviv, nell’ovest del Paese
Xavier Sartre – Lviv
L’autunno avvolge con un certo torpore il monastero basiliano di Briukhovychi, a una decina di chilometri a nord-ovest del centro di Lviv. Intorno alla chiesa, costruita nel 2019, gli edifici del convento e del seminario dell’ordine monastico greco-cattolico hanno ritrovato la calma dopo diverse settimane di agitazione per l’inizio della guerra. In questi grandi edifici dalle facciate bianche, che sorgono ai margini di una foresta, i monaci hanno accolto fino a 140 sfollati contemporaneamente. Oggi ne sono rimasti solo una sessantina. Gli altri sono partiti per l’estero o sono riusciti a trovare altro alloggio, nei dintorni o a Lviv.
Andryi è rimasto. Originario di Donetsk, nell’est, questo operaio specializzato dal viso rotondo e barba di tre giorni è stato costretto a lasciare la sua regione sin dall’inizio della rivoluzione del 2014. Dopo l’invasione russa nel febbraio 2022, vive una nuova fuga per arrivare, questa volta con sua moglie Tatiana, nell’ovest, dove ha ritrovato la figlia rifugiatasi da una amica dopo essere stata costretta a fuggire da Kharkiv, e ora andata in Irlanda. Per Andryi, il dolore della fuga è ancora grande, ma almeno, dopo aver trovato lavoro nelle ferrovie, ha un tetto e può contare sulla solidarietà degli abitanti della regione.
“Ci trattano bene”, confida timidamente. “Ho visto che qui le persone sono più generose che da noi e potrei dare tanti esempi. Anche prima della guerra, quando venivamo in montagna (nel sud-ovest del Paese ndr) abbiamo visto che le persone qui erano diverse, che l’atmosfera non aveva niente a che fare con quella dell’est”. Tuttavia, ammette che la vita non è affatto semplice: “Vorrei che mia figlia si unisse a noi, che potessimo tutti andare a vivere nel sud dell’Ucraina, dove c’è più sole e fa più caldo”.
Andryi è uno dei pochi sfollati del monastero di Briukhovychi che accetta di confidarsi. Gli altri preferiscono non esprimersi pubblicamente. Il dolore dell’esilio è ancora troppo forte, gli occhi si velano rapidamente di lacrime al ricordo di cosa si è vissuto. Daria si espone e accetta di rispondere a qualche domanda. Questa giovane donna bruna, madre di una bambina, è arrivata da Zaporizhzhia, dove si trova la più grande centrale nucleare d’Europa, e luogo di duri scontri tra le truppe ucraine e russe. Il ricordo della sua fuga le stringe ancora il cuore.
“Quando siamo partite io e mia figlia, avevamo molta paura, non sapevamo dove saremmo arrivate, se in Ucraina o altrove”, racconta con voce tremante. “Avevamo solo piccole borse e nient’altro. Alla fine ci siamo fermate a Lviv grazie all’aiuto dei volontari. I frati ci hanno poi accolte, ci hanno offerto di rimanere. Per noi è stata una sorpresa, non solo perché ci hanno dato un tetto, ma anche perché ci hanno dato da mangiare e la possibilità di parlare. Ci hanno sostenute e ne siamo molto grate. Quindi come ci sentiamo? Anche se non è la nostra città, ci sentiamo a casa, in Ucraina”, continua, commossa.
Naturalmente, le manca la sua vita di prima: la casa, la famiglia, gli amici. Resterebbe a Lviv o cercherà di tornare a Zaporizhzhia? Daria non lo sa ancora, è troppo presto e il Paese è ancora in guerra, con la sua città che si trova anche vicino al fronte. Sua figlia è la sua principale fonte di gioia. Va a scuola, frequenta i bambini della sua età e, soprattutto, “non deve più vedere le distruzioni causate dai combattimenti e non deve subire troppe allerte aeree”, spiega Daria, considerando che la regione di Lviv è stata, finora, quasi risparmiata dai bombardamenti russi.
L’incontro tra due mondi
A qualche decina di chilometri a sud-ovest di Lviv, si trova la Laura di Univ, monastero dell’ordine studita, da diversi secoli luogo di grande spiritualità in Ucraina. Gli edifici storici ospitano una comunità di monaci che vive al ritmo delle funzioni e che accoglie normalmente numerosi pellegrini. Anche qui, nelle prime settimane di guerra, nel caos totale, centinaia di persone, fuggendo dall’avanzata delle truppe russe, sono accorse verso questo rifugio di pace.
Trecento le persone che vi hanno trovato rifugio, tutti nello stesso momento, un numero poi progressivamente diminuito, fino ad arrivare alla trentina di ospiti della scorsa estate. La comunità studita ora ospita solo una famiglia originaria di Vouhledar, città dell’oblast di Donetsk, la cui casa è stata distrutta. Il figlio è disabile e a letto, i genitori non possono permettersi di trovare una nuova casa, non lavorando se non per dare un aiuto al monastero.
Per i monaci aprire le loro porte è stata una decisione naturale di fronte al dramma dei loro connazionali scacciati dalla guerra. Ma non è stato facile, soprattutto durante l’inverno scorso, nel corso del quale le interruzioni di elettricità e riscaldamento sono state numerose a causa dei bombardamenti russi sulle infrastrutture energetiche ucraine. Se hanno potuto far fronte alle spese aggiuntive, è stato grazie alla solidarietà dell’Œuvre d’Orient, un’opera di carità francese che sostiene i cristiani d’Oriente dal 1856 e i greco-cattolici dell’Ucraina dal 1924.
Il padre Jonas Maxim, uno slovacco che fino alla fine del 2023 è alla guida della Laura di Univ,, riconosce che questa esperienza lo ha trasformato, lui e i suoi fratelli. “I nostri orizzonti si sono ampliati, davvero ampliati, perché qui, con tutte queste persone arrivate, abbiamo conosciuto gli ucraini dell’Est”, spiega. “Abbiamo scoperto la loro mentalità, le loro abitudini, come sono, come pensano e col tempo è diventato qualcosa di interessante, in qualche modo si è trattato di due mondi, divisi nella realtà ma che si sono uniti”.
La guerra è sempre presente nelle menti
La maggior parte degli sfollati è arrivata dall’est dell’Ucraina, sono ortodossi e pochi, tra loro, sono praticanti. La fiducia e il dialogo si sono instaurati gradualmente tra la comunità studita e i loro “ospiti”. Cinque matrimoni sono stati celebrati, sei battesimi, tra cui quello della figlia di una donna musulmana originaria del Daghestan e sposata con un ucraino ortodosso. Quest’ultimo, precedentemente, non frequentava la Chiesa, ma non ha esitato a portare la sua piccola Marie al fonte battesimale di questo monastero greco-cattolico.
Il ritmo di vita della comunità non è stato troppo sconvolto dalla presenza degli sfollati, che si sono rapidamente integrati e hanno partecipato ai lavori comuni. Alla fine, la presenza dei bambini è stata il cambiamento più significativo, riconosce sorridendo il padre Jonas. Ciò che lo ha colpito di più è che questi sfollati “avevano una vera esperienza di guerra”. Un giorno, mentre i bambini giocavano sull’erba di fronte al monastero, è passato un aereo da caccia ucraino. Appena l’hanno sentito avvicinare, si sono fermati improvvisamente, lasciando cadere i loro giocattoli a terra, senza sapere cosa fare. Le madri sono uscite immediatamente dagli alloggi. Tutti aspettavano di vedere cosa sarebbe accaduto. In quel momento, abbiamo capito che avevano una vera esperienza di guerra e di bombardamenti”.
La solidarietà tra gli sfollati
L’urgenza dell’accoglienza agli sfollati è passata. La maggior parte di loro ha lasciato l’Ucraina per andare all’estero o ha trovato una sistemazione. Solo i più poveri o le persone isolate e senza supporto rimangono nei centri temporanei o nei monasteri. La priorità è stata quella di trovare un lavoro per non dover dipendere dagli esigui aiuti pubblici o dalla carità.
Ihor, un medico ecografista, è stato rapidamente assunto dall’ospedale cattolico Cheptitsky di Lviv. Viene da Mariupol ed è riuscito a fuggire dalla città che, nel marzo del 2022, per settimane è rimasta assediata dall’esercito russo. Quando incontra un ucraino originario come lui dell’Est, non fa pagare la consulenza. “Incontro tante persone che vengono non solo da Mariupol ma anche da tutto l’Est – spiega – e li incontro qui all’ospedale Cheptitsky ogni giorno. Per me è molto importante aiutarli perché siamo nella stessa situazione. Affrontano gli stessi problemi che affrontiamo io e la mia famiglia”. È il suo modo di partecipare allo sforzo collettivo e sostenere i suoi connazionali sradicati dalla guerra.
Se ogni storia di sfollati è unica, il loro desiderio è praticamente identico: tornare a casa, quando l’esercito russo avrà lasciato il loro Paese.