L’arcivescovo Visvaldas Kulbokas parla dell’esperienza della comunità cristiana in oltre trenta mesi di conflitto: cerchiamo di offrire solidarietà e sostegno alle coscienze, ci conforta far parte di un corpo che si fa vivo con noi da ogni parte del mondo. Importante gestire gli aiuti con trasparenza e senso di condivisione
Svitlana Dukhovych e Alessandro De Carolis – Città del Vaticano
Le maniche sono sempre rimboccate, perché se le bombe continuano a trasformare un condominio nel bersaglio di un drone e un parco giochi per bambini in un campo di battaglia non c’è troppo tempo per pensare, bisogna scattare con gli aiuti, caricare furgoni di viveri e medicine, non importa quanto sia vicina la linea del fronte. Ma la Chiesa in mezzo alle bombe ha un suo compito preciso e inalienabile: portare oltre a un pezzo di pane anche un pezzo di cielo a chi vive l’inferno, parlare alla coscienza di chi deve decidere tra la vita e la morte di un soldato, mentre la frenesia dell’azione, o della reazione, rischia di annebbiare il senso morale di una scelta.
“Non so come riescano a dormire”
A oltre due anni e mezzo dall’invasione russa, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, nunzio in Ucraina, fa una sorta di bilancio di come la Chiesa locale sia riuscita ad affrontare un dramma tanto enorme, continuando a essere una presenza di braccia e di anima accanto ai suoi connazionali. Il nostro ruolo, riflette con i media vaticani, è e resta quello “dell’annuncio del Vangelo”, perché “durante la guerra può subentrare la disperazione per tanti motivi: le difficoltà, le perdite, le ferite, il pensiero dei propri familiari prigionieri civili o prigionieri di guerra…”. Io, confessa il presule, “spesso mi pongo la domanda di come riescano a dormire i familiari dei prigionieri”. E dunque per “la Chiesa stare assieme al popolo significa portare la luce in mezzo al buio”.
Un ruolo di coscienza
Il nunzio si sofferma sul compito dei cappellani militari. Hanno, sostiene, anche “il ruolo della coscienza morale nel senso che, sì, la guerra è atroce, ma in ogni decisione che si prende, è importante che ci sia anche la voce di un sacerdote che chieda ai comandanti: ‘È giusta questa decisione che hai preso?’. Perché questa decisione riguarda i militari e riguarda vite umane”. Un ruolo di coscienza che si estende anche a una dimensione comunitaria. C’è sì, dice monsignor Kulbokas, una Chiesa che “supplica Dio di avere la pace”, ma c’è pure una Chiesa che parla “al popolo, ai governanti” invitandoli a “non affidarsi soltanto ai mezzi militari, politici o umanitari, ma anche a riflettere”. A volte, confida il nunzio, sulla scorta dei Padri della Chiesa “mi pongo la domanda: ‘Per chi dobbiamo pregare di più?’. San Giovanni Crisostomo invita a pregare per l’aggressore che sta perdendo la vita eterna”.
Mai arrendersi alle situazioni
La forza della resilienza si nutre anche della consapevolezza che c’è una rete sconfinata sempre pronta a dare una mano. “Sapere di essere una comunità mi aiuta, perché so che posso chiedere consiglio, posso trovare qualcuno che mi sostiene”, afferma il presule. “A volte qualcuno in Italia, in Spagna, in Francia, in Cile, in Argentina si fa presente attraverso le e-mail o le telefonate dicendo: ‘Noi ci siamo, che cosa possiamo fare?’ Questa è la Chiesa: sapersi sparsa in tutto il mondo e sentirsi appoggiata da tutto il mondo”. Ma c’è, per così dire, un insegnamento venuto dall’essere cristiani finiti in questa follia che devasta persone e città da oltre trenta mesi? Monsignor Kulbokas replica partendo da una parola, “frustrazione”. Ho imparato, “spero” dice, che “durante i periodi difficili si vivono “molte situazioni frustranti”. Le “situazioni dei prigionieri, i bambini che non riescono a tornare dalla Russia ai loro genitori … Si lavora molto e i risultati sono pochissimi”. Ma poi, soggiunge, “ho imparato anche da altre persone, condividendo esperienze, che non bisogna mai arrendersi a una situazione. Ho conosciuto tante persone che mi hanno detto: ‘Guarda, anch’io magari in un anno non sono riuscito a fare nulla, in due anni nulla. Poi il terzo, quarto, quinto anno di sforzi sono riuscito a trovare delle soluzioni, delle strade, le parole giuste, le iniziative per risolvere qualcosa”.
Aiuti, affidarsi agli organismi istituzionali
La riflessione si sposta poi su quale possa essere il piano etico migliore per dare valore agli aiuti che l’Ucraina ha ricevuto e continua a ricevere. C’è molta gente, riconosce, disposta a offrire a vari livelli, “spirituale, politico, nell’informazione, in campo umanitario”. “L’impressione che ho avuto finora – sostiene il presule – è che sia molto opportuno che gli organismi che gestiscono questo siano istituzioni ufficiali, altrimenti c’è il rischio che non ci si fidi delle nuove associazioni”. Monsignor Kulbokas invita chiunque abbia un’idea a comunicarla “a queste istituzioni ufficiali”, anche quelle della Chiesa come il Sinodo dei vescovi della Chiesa greco-cattolica, la Conferenza dei vescovi latini, la Nunziatura stessa.
Condividere l’abbondanza di beni
Condivisione di idee, dunque. E anche di beni, fatta con intelligenza. “Di potenziale ce n’è moltissimo”, assicura il nunzio, che ricorda il colloquio avuto con due americani impegnati nella raccolta di medicinali per l’Ucraina. “Mi dicevano: nel nostro settore succede spesso che siccome gli ospedali devono ridurre il personale, anche medico, non abbiano il tempo di fare bene i calcoli e finiscano spesso per ordinare medicinali o macchinari che poi usano poco. Si ordina un pacco di medicinali e magari si ha bisogno di mezzo pacco. E mi dicevano che rimane una quantità enorme di macchinari e di medicinali in condizioni buone, ma non usato”. “Questo sovrasviluppo del mondo occidentale – afferma monsignor Kulbokas – crea a volte la sovrabbondanza dei beni che bisogna saper cercare e donare a chi ne ha bisogno”. E “la mia proposta – conclude – è di convogliare alcune di queste iniziative anche alle istituzioni della Chiesa, sapendo che sono istituzioni serie e quindi possono unirsi a questo tipo di impegno”.