Sudan, l’ex nunzio: ci sarà pace se a guidarla sarà la società civile

Vatican News

L’arcivescovo di Nasai, fino a pochi giorni fa rappresentante pontificio a Khartoum, parla di nazione nel caos: le conseguenze di quanto sta avvenendo “dureranno per molti anni” e la crisi rischia di incendiare i Paesi fragili dell’Africa

di Valerio Palombaro

Da quel sabato di metà aprile dello scorso anno, quando Khartoum si è svegliata sotto il fuoco incrociato delle fazioni in lotta, la situazione è precipitata in varie parti del Sudan. Ricorda bene quei terribili giorni nella capitale sudanese l’arcivescovo Luis Miguel Muñoz Cárdaba, fino a poco fa nunzio apostolico in Sudan ed Eritrea (ora nominato in Mozambico), che in un’intervista ai media vaticani analizza le cause profonde di questa guerra.

Il Sudan, da quasi 10 mesi, è alle prese con un sanguinoso conflitto che sta causando numeri impressionanti di vittime e sfollati. Quali sono le aree più coinvolte nelle ostilità e c’è preoccupazione per un ulteriore allargamento di questa guerra?

Il conflitto armato provocato dalla rivalità tra i due generali, Abdel Fattah Al-Burhan che guida l’esercito regolare sudanese (Saf) e Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti” a capo dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), ha gettato il Sudan in un caos le cui conseguenze dureranno per molti anni. Mentre i combattimenti sono particolarmente cruenti nella capitale Khartoum e nelle regioni del Darfur — con massacri che ricordano il terribile genocidio degli anni 2003-2005 — del Kordofan e di Gezira, il resto del territorio sudanese sotto il controllo dall’esercito regolare gode di una calma relativa.

Ma la guerra in Sudan preoccupa la regione del Corno d’Africa, che ne subisce le conseguenze, con il rischio concreto di sprofondare in una lunga crisi umanitaria con gravi ripercussioni geopolitiche. Prima del conflitto, il Sudan ospitava oltre 1,1 milione di rifugiati stranieri, tra questi 800.000 sud sudanesi e numerosi eritrei ed etiopi. Il Sudan era quindi uno dei principali Paesi di accoglienza dei rifugiati in Africa. Oggi le dinamiche sono opposte e c’è pertanto il rischio che la guerra sudanese possa incendiare i Paesi vicini, in particolare il fragile Sud Sudan, ma anche il Ciad e altri.

Il Darfur, a circa 20 anni dalle atrocità dei primi anni Duemila, è tornato scenario di gravi violenze e crimini. Quale è la situazione nell’area?

La guerra ha riacceso le tensioni etniche, provocando scontri tra combattenti tribali e milizie, soprattutto nel Darfur (che ha una popolazione di circa 6 milioni di abitanti, quasi tutti musulmani, e un territorio di poco più piccolo della Spagna), facendo precipitare pericolosamente questa regione in una nuova guerra civile tribale. La situazione attuale può essere ricondotta al lungo conflitto vissuto nel Darfur per l’accesso alla terra e all’acqua tra la maggioranza della popolazione di razza africana nera, composta da tribù sedentarie, e la minoranza nomade originaria della penisola arabica, che invece costituisce maggioranza nel resto del Sudan. L’attuale guerra scoppiata il 15 aprile 2023 si è aggravata dopo che due formazioni armate del Darfur, finora rimaste neutrali, hanno dichiarato di essersi schierate con l’esercito regolare contro i paramilitari accusandoli di aver commesso atrocità. Bisogna inoltre ricordare che molti membri delle Rsf sono originari del Darfur. 

Gli sforzi di mediazione tra le parti in lotta sembrano non avere successo. Chi può portare avanti una mediazione efficace e ci sono spazi su cui lavorare per far tornare a parlare la diplomazia?

Finora tutti gli sforzi e i tentativi di mediazione per trovare una via d’uscita dal conflitto sono risultati infruttuosi. Anche le conversazioni tra rappresentanti delle due fazioni opposte, tenute più volte nella città saudita di Jeddah con il sostegno dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti, sono fallite. Infatti, nessuno dei due generali belligeranti ha rispettato le tregue concordate per l’apertura di corridoi umanitari. Entrambe le parti si accusano a vicenda di queste ripetute violazioni del cessate il fuoco. In più, nello scorso dicembre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deciso di porre fine all’Unitams, la Missione integrata delle Nazioni Unite di assistenza alla transizione in Sudan, la cui attività è sempre stata guardata male e ostacolata dai militari, che la consideravano un’ingerenza negli affari interni sudanesi. Questa riduzione della presenza internazionale in Sudan potrebbe tristemente facilitare la commissione di nuovi crimini contro la popolazione civile.

Le due fazioni in lotta hanno esternato degli obiettivi chiari che possono essere una base per iniziare a ragionare su possibili soluzioni politico diplomatiche?

Il conflitto scoppiato in Sudan è solo la continuazione di una situazione politica instabile dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir nel 2019. Le forze e i gruppi armati non hanno mai voluto cedere il potere ai civili. Attualmente sono i militari e i paramilitari a contendersi la guida del Paese, a scapito del passaggio di potere ai civili.

Il dialogo tra i belligeranti non è facile, anche se questa è la strada da seguire. Inoltre, la Comunità internazionale dovrebbe lavorare di più per riportare la pace nel Paese e rimetterlo sulla strada della democrazia, con il contributo e la partecipazione dei sudanesi. La via da percorrere è lunga mentre il Paese continua a frantumarsi, non solo perché i militari e i paramilitari non sembrano per il momento disposti a deporre le armi, ma anche perché difficilmente accetteranno di consegnare la guida del Sudan ai civili attraverso un nuovo processo di transizione democratica. C’è un elemento chiave che non dovrebbe essere dimenticato: non ci sarà pace né transizione democratica se la società civile – compresi i numerosissimi giovani – non sarà la vera protagonista – e non i militari o i paramilitari – del cambiamento politico e della costruzione di un nuovo Sudan.

Il conflitto in Sudan sta causando un numero impressionante di sfollati. Quali sono le situazioni più difficili e come si sta muovendo la Santa Sede per aiutare?

Oltre all’elevatissimo numero di sfollati, il conflitto ha complicato la già precaria situazione sanitaria, educativa ed economica del Sudan: il 65% della popolazione non ha accesso all’assistenza sanitaria; il 75% degli ospedali nelle aree colpite dal conflitto non sono più funzionanti; il numero di bambini che non frequentano la scuola raggiunge i 19 milioni; almeno 10.400 scuole sono state chiuse nelle aree di guerra; i bambini non scolarizzati sono esposti al reclutamento da parte di gruppi armati e alla violenza sessuale. Infatti, secondo l’Unicef il Sudan è sul punto di diventare il Paese con la peggiore crisi educativa al mondo.

Inoltre, la Banca Mondiale prevede che l’economia sudanese subirà una contrazione del 12,5% nel 2023 perché il conflitto ha distrutto il capitale umano e la capacità dello Stato, ha fermato la produzione, ha danneggiato la base industriale e, in più, ha portato al collasso dell’attività economica e all’erosione della capacità dello Stato, con impatti dannosi sulla sicurezza alimentare e sugli sfollamenti forzati.

La fine del trentennale regime di Omar Al-Bashir, nel 2019, aveva alimentato le speranze di una “rivoluzione” positiva per il Paese. Cosa non ha funzionato in questa “rivoluzione” e quali sono le reali aspirazioni del popolo sudanese?

Sono arrivato a Khartoum nel 2020 in un momento di ottimismo e di speranza per il futuro del Sudan, grazie al processo di transizione democratica apertosi nell’estate del 2019 dopo la rivoluzione civica e la caduta del regime militare islamista di al-Bashir, che ha governato il Paese con pugno di ferro per 30 anni.

Fin dall’inizio mi ha colpito la diversa percezione che molti stranieri presenti nel Pese, soprattutto occidentali, e i vescovi sudanesi avevano di questo processo di transizione politica. Mentre i primi non nascondevano il loro grande entusiasmo affermando addirittura che il Sudan sarebbe diventato un esempio di apertura democratica per l’intero Corno d’Africa, i secondi si mostravano molto più scettici sul futuro del Paese, ricordando la storia recente del Sudan, piena di colpi di Stato e di governi dittatoriali. Purtroppo, il passare del tempo ha dato pienamente ragione ai vescovi locali.

Nell’ottobre 2021 gli stessi generali al-Burhan e “Hemedti”, ora in lotta, guidarono un colpo di Stato, deponendo il governo civile del primo ministro Abdalla Hamdok e aprendo a mesi di crisi politica, sociale e istituzionale. Tutte le residue speranze sono poi state spazzate via dal conflitto scoppiato il 15 aprile 2023. Per capire bene le ragioni profonde della guerra che oggi dissangua il Sudan, bisogna tenere conto anche di diverse cause: l’impraticabile presenza di due forze armate diverse (Saf e Rsf) nello stesso Paese,  il controllo delle risorse naturali, soprattutto delle miniere d’oro del Darfur; l’affinità di al-Burhan con diversi alti membri dell’ufficialmente sciolto partito islamista National Congress Party — al potere durante il regime del deposto al-Bashir — che non poteva piacere a “Hemedti”, considerato un traditore dagli stessi islamisti; infine, anche il diverso sostegno internazionale su cui i due rivali contano.

Sebbene non sia ancora chiaro quale sia stata la “scintilla” concreta che ha acceso il fuoco tra le due forze armate rivali,  in ogni caso appare chiaro il ruolo decisivo giocato dalla minoranza islamista nello scoppio della guerra. Le aspirazioni del popolo sudanese, soprattutto dei numerosi giovani, sono le stesse di 4 anni fa, che ispirarono la Rivoluzione civica del 2019: progresso, democrazia, più libertà e giustizia, ruolo attivo dei civili nella vita politica ed economica. È da qui che bisognerebbe ripartire.