Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
È stato l’assedio più lungo della storia moderna, più di quello di Stalingrado durante la seconda guerra mondiale, ad una città fisicamente vulnerabile, indifendibile dagli attacchi. Sarajevo è a 700 metri di altezza, ma circondata da montagne che superano i duemila metri e digradano in dolci colline. Sarajo, in ottomano significa “gineceo”, e nell’idea dei fondatori, doveva essere un “giardino delle spose”, non certo una città fortificata. E da un mese prima di quel 6 aprile 1992 che segna l’inizio della guerra in Bosnia-Erzegovina e dell’assedio, sulle alture intorno alla capitale, sono appostati cannoni, mortai, katiuscia, kalashnikov, mitra e cecchini della Jna, l’Armata Nazionale Jugoslava diventata ormai strumento della Serbia per cercare di impedire il disfacimento della Federazione controllata da Belgrado. Il 3 marzo, infatti, il parlamento di Sarajevo aveva proclamato l’ indipendenza della Bosnia-Erzegovina, dopo quello di Slovenia e Croazia, dopo un referendum accettato però solo dai musulmani (allora il 43,7 per cento della popolazione) e dai croati (il 17) ma non dai serbi (il 31,3).
La prima vittima dell’assedio, la studentessa Suada
Ma non è stato l’assedio di Suada Dilberovic, studentessa di medicina di 21 anni, musulmana di Dubrovnik che doveva laurearsi un mese dopo domenica 5 aprile, quando era in testa alla manifestazione degli studenti per la pace. Fu colpita al petto per prima, mentre in migliaia gridavano “Non permetteremo a nessuno di distruggere Sarajevo”. Tra gli alberi e i palazzi della collina, da dove erano partiti i colpi, le divise cetniche dei serbo-bosniaci. A terra, poco dopo il ponte Vrbanja, davanti alle barricate serbe di Grbavica, rimasero sei morti e una ventina di feriti. Ma ancora in tanti non credevano alla guerra, quella calda mattina soleggiata del 6 aprile, quando sulla spianata del Parlamento duecentomila persone, arrivate da tutto il Paese, scandivano slogan contro il nazionalismo, studenti ma anche minatori e operai degli altoforni. I dimostranti avevano occupato l’emiciclo, tra loro anche Mustafa Cengic, già ministro dell’Informazione del governo di Belgrado, ormai dominato dai serbi, fuggito dopo le prime stragi a Bijeljina, che il presidente Milosevic pretendeva che denunciasse come “crimini musulmani” contro “serbi innocenti”.
Dall’Holiday Inn, i colpi dei cecchini sulla folla
A mezzogiorno, dalle finestre del quinto piano dell’Holiday Inn, che poi sarebbe diventato la base operativa dei giornalisti di tutto il mondo durante l’assedio, cecchini serbi spararono sulla folla che applaudiva il riconoscimento dell’indipendenza da parte della Comunità Europea, prima nel mucchio e poi mirando alla testa. Alla suite 503 alloggiava, fino all’alba, Radovan Karadzic, il leader del serbo-bosniaci che aveva appena annunciato la nascita della Repubblica Srpska e se n’era autoproclamato presidente. Le truppe speciali dell’antiterrorismo bosniaco, guidate da Dragan Vikic, fecero irruzione nell’hotel, e iniziò una guerra civile che sarebbe durata più di 3 anni e mezzo.
Più di mille giorni di assedio, 11 mila vittime
Si sarebbe chiusa il 21 novembre 1995, con la firma della pace di Dayton. In mezzo, solo a Sarajevo 11 mila morti tra i quali 1650 bambini, e 52 mila feriti, tra i circa 280 mila abitanti rimasti, spesso, senza acqua, luce e gas. In tutta la Bosnia ed Erzegovina, si conteranno 328 mila morti o dispersi, quasi un milione di sfollati interni e un milione di profughi all’estero, per un Paese che nel 1991 aveva 4 milioni e 350 mila abitanti. Il più grande conflitto in Europa dalla seconda guerra mondiale mobilitò la comunità internazionale, l’Onu e le sue agenzie umanitarie, la solidarietà di tutto il mondo (tante le campagne e le “missioni” anche di privati dall’Italia), ma non si fermò, se non dopo l’orrore della seconda strage di civili al mercato di Markale, nell’agosto del 1995.
Monsignor Pero Sudar, ordinato vescovo sotto le bombe
È stato anche l’assedio di monsignor Pero Sudar che, nell’aprile del 1992, era rettore del Seminario arcivescovile, e che nel maggio 1993 san Giovanni Paolo II ha nominato vescovo ausiliare di Sarajevo, accanto al cardinale Vinko Puljic. Sudar, 71 anni a luglio, si è ritirato nell’ottobre 2019, “per lasciare spazio ai giovani sacerdoti – ci dice – che grazie a Dio non mancano oggi nella nostra Chiesa”, e oggi si occupa delle “Scuole per la Pace” interetniche, che ha fondato nel 1993, durante l’assedio, e che sono diffuse in tutta la Bosnia-Erzegovina. “Nonostante gli scontri in Slovenia e la guerra in Croazia – racconta a Vatican News – speravamo sempre che questo non accadesse a Sarajevo”, ma dopo quell’attacco alla spianata del Parlamento, “nella paura e nell’incertezza, abbiamo cercato di organizzarci. Avevamo già dei profughi nella cantina del Seminario” e altri se ne sarebbero aggiunti dai palazzi popolari vicini, “gente che in casa non si sentiva più sicura”.
Mustafa Ceric, Gran Muftì di Bosnia dal 1993 al 2012
Non era in città invece Mustafa Ceric, il 70 enne Gran Muftì emerito di Bosnia, leader della Comunità islamica del Paese dal 1993 al 2012, oggi presidente del Centro per il dialogo “Al-Wasatiyya” (Moderazione) di Sarajevo. Nel 1997, insieme ai massimi rappresentanti delle altre due religioni principali del Paese, la cristiana (con ortodossi e cattolici) e l’ebraica, ha fondato il Consiglio interreligioso della Bosnia ed Erzegovina. Nel 2008, poi, ha guidato la delegazione islamica al primo Forum cattolico-islamico in Vaticano.
La speranza vana che la città sarebbe stata risparmiata
Ci racconta che da imam di Zagabria, dal 1987, si era reso conto “dell’imminente dissoluzione della Jugoslavia”, ma che nella comunità islamica bosniaca, e a Sarajevo in particolare, c’era invece “la forte sensazione che la Bosnia sarebbe stata risparmiata da qualsiasi conflitto”. “Era difficile comprendere – ci dice – questa apparente tranquillità a Sarajevo in mezzo ai disordini jugoslavi”. E dalla Malesia dove si trovava nell’ aprile 1992, come docente di Pensiero e Civiltà islamica a Kuala Lumpur, potè organizzare i primi e poi sempre più cospicui aiuti della locale comunità islamica alla gente di Sarajevo sotto assedio. Prima di rientrare in città nel 1993 come Gran Muftì.
Un conflitto che nessuno riuscì ad evitare, dopo gli ultimatum
Nelle ampie interviste che pubblichiamo, i due testimoni dell’assedio di Sarajevo concordano sull’impossibilità di evitare il conflitto, nel 1992, davanti all’ultimatum dei serbo-bosniaci: o uniti con la Serbia in una Jugoslavia ridotta, o avrebbero proclamato la loro Repubblica disgregando la Bosnia-Erzegovina e facendo fuggire musulmani e croati dai loro territori. E confermano l’anima multietnica e multireligiosa della città e di tutta la Bosnia-Erzegovina. “Non c’è alternativa” assicura Ceric. “Non possiamo dividerci senza spargere di nuovo del sangue – ribadisce Sudar – non ne vale la pena. La guerra di trent’anni fa, come tutte, non è servita a nulla. Abbiamo bisogno di uno Stato che funzioni, che riconosca le differenze, ma valorizzi la convivenza e dia una prospettiva di vita ai giovani”.
Sarajevo 1992, come Kiev 2022
Riconoscono entrambi le drammatiche analogie con la guerra in Ucraina, e la logica sbagliata, secondo il vescovo Sudar, di uno Stato, un popolo, che si sente minacciato o fa finta, e pensa di proteggersi attaccando”. E guardano all’Unione Europea. Il Gran Muftì onorario per chiedere a Bruxelles di “non tenere ancora la Bosnia in attesa alla sua porta”, ma di accettarla come membro dell’Unione Europea, come già doveva avvenire da tempo, a “riscatto del peccato di complicità nel genocidio contro il popolo bosniaco”. Il riferimento è al genocidio di Srebernica del luglio 1995 e a tutte le stragi di civili per la “pulizia etnica” organizzata dalle milizie di Karadzic e del generale Mladic in tanti villaggi sul fiume Drina.
Sudar: l’Ue aiuti la Bosnia a diventare uno Stato normale
Il vescovo ausiliare emerito di Sarajevo ha meno fretta, convinto che se oggi, “per la minaccia della Russia, si sbrigassero a far entrare la Bosnia-Erzegovina nell’Ue” questo non risolverebbe automaticamente i problemi. Prima, spiega, “l’Unione Europea deve aiutare il mio Paese a diventare uno Stato normale”, risolvendo le contraddizioni create con l’Accordo di Dayton. Ecco la sua testimonianza integrale:
Monsignor Pero Sudar, dove era il 6 aprile del 1992, quando alcuni serbo-bosniaci spararono sui manifestanti davanti al Parlamento bosniaco dall’Holiday Inn,e iniziò l’assedio di Sarajevo? Cosa ricorda di quei primi giorni di guerra?
Ero al seminario, nel centro di Sarajevo, a poche centinaia di metri dalla Cattedrale, dove ero rettore. Mi ricordo benissimo lo stato d’animo molto turbato della gente, un miscuglio di paura e incertezza. Nonostante avessimo potuto vedere cosa era successo prima un poco in Slovenia, poi in modo più grave in Croazia, speravamo sempre che questo non accadesse a Sarajevo. Quando sono iniziati gli scontri la gente non sapeva più dove andare, cosa fare. Veniva anche da noi a chiedere aiuto, a chiedere consigli e anche il seminario era un po’ in confusione, perché alcuni studenti e professori erano andati via per le vacanze di Pasqua e non riuscivano più a tornare. C’era una confusione totale, però quando si è cominciato a sparare abbiamo capito. Ma non si poteva fare un granché contro quella situazione. Abbiamo comunque cercato di organizzarci: già ospitavamo dei profughi nelle cantine del seminario, e ci dovevamo occupare di loro. Due giorni prima era iniziato il Ramadan e abbiamo organizzato per loro, che erano in gran parte musulmani, una festa…
Poi mille giorni di assedio… Qual è il suo ricordo più forte di quei tre anni e mezzo di paura, colpi mortali dei cecchini e stragi, compiute dalle granate sparate dalle colline contro i civili inermi?
Quello che mi torna in mente molto spesso è un attacco di un gruppo di soldati privati nelle nostre cantine, dove hanno maltrattato e picchiato i profughi, specialmente maschi, che si erano rifugiati lì. Molte delle persone che si rifugiavano da noi venivano dalle vicine case popolari: avevano paura di stare nelle loro abitazioni. Ma i soldati erano arrabbiati perché molti secondo loro dovevano stare al fronte a combattere. Li hanno picchiati e poi qualcuno ha telefonato a Vikic e al suo gruppo della polizia speciale e sono entrati dentro, hanno spento la luce ed è stato un momento davvero drammatico. Come anche la situazione durante la mia ordinazione vescovile, in un giorno (il 6 gennaio 1994, n.d.r.) in cui la polizia ha proibito alla gente di lasciare le case perché è stato il giorno con i bombardamenti più violenti di tutto l’assedio di Sarajevo. Avevo un’angoscia dentro che potesse succedere qualcosa di brutto alla gente perché la Cattedrale era piena. Forse questi due momenti sono stati i più delicati, durante i quali ho avuto una grande paura non soltanto per me, ma soprattutto per la gente della quale avevo qualche responsabilità.
E quale ricordo ha del generale Jovan Divjak, il serbo difensore di Sarajevo che dopo la guerra ha aiutato a crescere nella pace tanti piccoli bosgnacchi, serbi e croati?
Lo ricordo come un personaggio veramente per bene, molto aperto, molto sincero e anche molto umano. Abbiamo imparato a conoscerlo durante la guerra, specialmente in un momento molto delicato, quando c’è stato uno scontro tra i militari dell’Armata Jugoslava e i difensori di Sarajevo, nel quale lui ha svolto un ruolo molto positivo. Dopo la guerra, si è dedicato, come lei ha ricordato, all’educazione dei più giovani perché convinto, come anche molti altri, che il nostro futuro può migliorare, può cambiare, soltanto aiutando le nuove generazioni a crescere, sapendo quale valore e quale prezzo ha veramente una pace vera. È la capacità dei diversi di vivere insieme, di ricostruire questo Paese insieme. Lui si è dedicato proprio a questo: a trasmettere quello che credeva alle nuove generazioni ed è rimasta una persona molto stimata e apprezzata.
Sempre a proposito di educazione, sotto le granate e i colpi dei cecchini, lei ha promosso la nascita di una piccola scuola per i bambini cattolici, poi aperta a tutte le religioni, primo seme delle future Scuole interetniche per l’Europa. Ma quei bambini, diventati uomini, stanno cambiando o potranno cambiare Sarajevo e il Paese?
È difficile da dire, perché prima di tutto i nostri studenti sono un numero piccolo, a Sarajevo adesso sono 1500, quindi rispetto agli altri è poco. E poi purtroppo non è possibile trasmettere valori positivi contrari a quelli che si vivono nella società, specialmente nelle famiglie da cui vengono questi ragazzi. Mi torna sempre in mente una frase che una nostra alunna ci ha detto una volta: “Voi qui ci educate come in una stanza di vetro, perché la logica che voi ci trasmettete non si vive fuori da questa istituzione”. Quindi si vede che questo messaggio della convivenza, della tolleranza, della pace, che noi abbiamo cercato di trasmettere alle nuove generazioni, e non da soli, perché anche le scuole pubbliche, secondo me, sempre di più cercano educare agli stessi valori, è molto difficile. Perché la nostra struttura statale e della società è opposta, tende alla divisione, tende a chiudersi, tende a vedere nell’altro una minaccia e non un’occasione. Ed è difficile anche aspettarsi che questo piccolo gruppo accetti tutto quello che noi proponiamo. Poi purtroppo la maggioranza dei nostri ex alunni non sono più né a Sarajevo, né in Bosnia-Erzegovina, ma sono all’estero. Per esempio, quando abbiamo festeggiato i 10 anni di una scuola a Zenica, abbiamo pensato di vedere dove sono oggi gli “Alunni dell’anno”, quelli che ogni anno premiamo come migliori. Di 15 solo uno è rimasto in Bosnia-Erzegovina, e questa è la percentuale dei nostri giovani che rimangono qui. E purtroppo non c’è da aspettarsi che possano incidere più di tanto.
Quindi come vede il futuro della sua città e della Bosnia-Erzegovina? Potrà essere di nuovo multietnico, come in passato, oppure è meglio rassegnarsi a una divisione in due o forse tre diversi stati etnici come vorrebbe chi è convinto che le differenze tra gli uomini siano la ragione della intolleranza e delle guerre?
Non credo che dividendoci, spaccandoci con uno spirito di nemici, si possa risolvere qualsiasi problema. Il nostro futuro sarà possibile in una Stato che funzioni, normale, riconoscendo le differenze e dando anche una certa garanzia territoriale. Il nostro Paese non si può dividere senza spargere di nuovo del sangue, secondo me, e questa è la mia paura. Allora non vale la pena, bisogna conservare questo Paese cuscinetto, che da secoli conosce la convivenza. Non è stata certo sempre una convivenza pacifica, però la gente ha imparato ad accettare la diversità. È fondamentale che i politici, che l’Unione Europea, aiutino, incoraggino questo spirito che, secondo me, è una prospettiva di tutto il mondo, perché oggi non c’è un Paese dove non ci siano diverse culture ed etnie. Il mondo imparerà a convivere, cioè ad accettare le sue differenze o vivrà sempre nel conflitto. Anche le nostre scuole volevano essere un laboratorio, un esempio che la convivenza è qualcosa di positivo. Perché è Dio che ci ha creati diversi. Allora se Lui ci vuole diversi, anche come etnie, come religioni, come caratteri, questa è una ricchezza! Solo così, secondo me, noi possiamo risolvere i nostri problemi, possiamo fare di questo Paese un Paese dove i giovani vedono una prospettiva di vita e un futuro. Altrimenti ci dividiamo di nuovo con lo spargimento di sangue, e questo per un uomo che vuole essere chiamato uomo, secondo me, non è degno e non è una prospettiva.
Lei ha parlato di religioni. Cosa pensa delle parole di Papa Francesco a Sarajevo, nel 2015, all’incontro interreligioso, quando disse che “i leader religiosi sono i primi custodi della pace in Bosnia-Erzegovina”? La guerra in Bosnia non è stata una guerra di religioni?
Non so se qui sono davvero i primi custodi, dovrebbero però esserlo secondo la fede che professano, secondo ciò che la religione dovrebbe essere. Certamente la guerra in Bosnia-Erzegovina non è stata una guerra religiosa, perché tutti i politici e generali che hanno guidato la guerra, durante il comunismo si sono professati atei. Come possono degli atei fare una guerra di religione? Però questo non vuol dire che la nostra guerra non abbia strumentalizzato le religioni. Questo purtroppo è accaduto, come accade quasi sempre. Secondo me, se ci fosse una vera, sincera pace tra le religioni, le guerre in questo nostro bel mondo sarebbero ben poche. Perché si dice che, anche in un mondo che si proclama tanto ateo, oggi il 90 per cento della popolazione mondiale crede in qualcosa. Se crede in qualcosa di soprannaturale, allora uno si deve sentire obbligato. Però purtroppo le religioni non hanno, fino ad adesso, trovato il modo di collaborare veramente, con sincerità. Senza, come Papa Francesco sottolinea sempre, cercare di convertire gli altri. Se uno crede in un altro modo in Dio, in cui credi anche tu, lascialo credere come vuole! Però insieme bisogna collaborare, impegnarsi per il bene dell’uomo. Perché per tutte le religioni, lo scopo finale è il bene e la salvezza dell’uomo. E non si può salvare l’anima senza salvare la vita, ma la guerra mira direttamente a distruggere la vita. Allora secondo me i capi religiosi dovrebbero, tra di loro per primi, comportarsi sinceramente, e vedere negli altri dei fratelli e così penso che le religioni potrebbero dare un bel contributo al bene di questo mondo, specialmente alla pace.
Infatti Fratelli tutti è l’ultima Enciclica di Papa Francesco. Ma la Chiesa ortodossa serba ha dichiarato di più volte che il cristianesimo a Sarajevo è minacciato. Lo pensa anche la Chiesa Cattolica? Ma l’approccio difensivo della propria identità è quello corretto, nella situazione che vivete?
Lei cita qualcuno che dimentica che una buona parte di Sarajevo è orientale, cioè la Sarajevo serba ortodossa. Allora come si può dire che a Sarajevo i cristiani sono minacciati? Certamente la Sarajevo diciamo storica è popolata, per più del 95 per cento dai musulmani. Se questa è la minaccia, allora sì… però io non la vedo come una minaccia. Piuttosto la minaccia è l’intolleranza che purtroppo è entrata in tutte le sfere della vita, non soltanto a Sarajevo, ma anche a Banja Luka, anche a Mostar. Io purtroppo non posso dare la colpa solo a un gruppo. Forse sarebbe più facile così risolvere il problema. Uno può certamente ragionare per etichette, in questo momento storico, nel quale nel mondo l’Islam un po’ lancia minacce. È vero che i nostri bosgnacchi musulmani non sono quelli che erano prima della guerra, perché hanno vissuto una guerra, come tutti noi, e hanno tratto le loro conclusioni. Però io sono sicuro che se veramente ci fosse una buona volontà da parte dei cristiani, cattolici e ortodossi, in Bosnia ed Erzegovina, una mano tesa, sincera, per collaborare e impegnarsi tutti insieme, penso che i nostri musulmani non sarebbero una minaccia per nessuno. Per quanto riguarda l’identità: certamente fa parte di una persona umana e di un popolo e bisogna conservarla, bisogna curarla. Però non chiudendosi agli altri. Io lo sottolineo sempre qui: noi possiamo amare il nostro popolo, fare del bene al nostro popolo, solo facendo del bene agli altri popoli. Perché se non facciamo così, se ci impegniamo solo a conservare la nostra identità, non badando a cosa succede nei rapporti tra il nostro popolo, la nostra Chiesa, e gli altri, noi non possiamo fare il bene della nostra Chiesa. Allora identità sì, però identità aperta, pronta a collaborare, identità che aiuta anche gli altri. Perché aiutando gli altri, uno può aiutare e aiuta anche sè stesso.
Cosa può dirci ancora sul futuro dei giovani in Bosnia e a Sarajevo?
Oggi i nostri giovani se ne vanno via in maniera massiccia, perché qui, purtroppo, oltre questa povertà e mancanza di posti di lavoro, c’è un’ atmosfera che ai giovani non piace, perché è un atmosfera di insicurezza. Uno di loro mi ha detto: “Io voglio vivere oggi, e non voglio sperare per domani”… i giovani di oggi vogliono realizzare la loro vita e se ne vanno lì dove credono che per loro è meglio, è la loro opinione. Si potrebbero sicuramente fermare in Bosnia, se ci fossero speranze per un futuro prima di tutto migliore e poi più sicuro, che per adesso purtroppo non ci sono.
Un’ultima domanda, monsignor Sudar. C’è un’altra capitale in Europa, trent’anni dopo, sotto assedio dopo Sarajevo, è Kiev. Qualcuno paragona l’attacco russo all’Ucraina, a quello serbo alla Bosnia di trent’anni fa, e le ultime notizie di stragi di civili sembrano dare ragione a questo collegamento. Lei cosa ne pensa?
Certamente ci sono tante cose simili. Uno Stato, un popolo, che si senta minacciato o faccia finta, pensa di proteggersi attaccando. E questa è la logica sbagliata: non ci si protegge e non ci si difende attaccando gli altri. Il popolo serbo, da noi, si sentiva minacciato perché crollava la Jugoslavia e oggi i russi si sentono minacciati e attaccano. Questo è uguale. Mi domando poi: ma perché noi non capiamo che l’Europa non vivrà in pace e nella prosperità se non si riconcilierà con sé stessa? La Russia fa parte dell’Europa, non dell’ Unione Europea, però è Europa. Di questo parlava Giovanni Paolo II, che conosceva bene la situazione: “Noi dobbiamo respirare – diceva – con tutte e due i polmoni”.
Ma lei che si è sempre detto europeista, e che ha chiamato le suo scuole interetniche “Scuole per l’Europa”, ha la speranza che questa Europa in futuro cambi?
Io sono con tutto il cuore e l’anima un europeista, perché l’Europa è un continente magnifico. Ha anche in qualche modo i governanti, in questo momento, molto più onesti del resto del mondo. E poi è un continente che ha sempre saputo custodire e unire, cominciando dai greci e dai romani, sia la sua parte spirituale che quella materiale, ed economica. Però l’Europa deve unirsi, deve mettersi d’accordo. Il popolo russo, la Russia è grande come un continente, allora perché isolare la Russia? L’Europa avrà un futuro, e io mi auguro che sarà un futuro veramente prospero, che rifiorirà, non so come e quando, però lo spero, e che sarà un continente che saprà come aiutare gli altri, nelle cose positive. Quindi spero tantissimo che anche un giorno, quanto prima, la Bosnia-Erzegovina farà parte dell’Unione Europea. Però anche che l’Ue, prima di questo, aiuti il mio Paese a diventare uno Stato normale.
Ceric: l’orrore della strage al mercato, nel mio compleanno
Negli occhi e nella memoria del secondo testimone, il Gran Muftì emerito di Bosnia Mustafa Ceric, c’è ancora, indelebile, il massacro al mercato di Markale, nel cuore di Sarajevo, il 5 febbraio 1994, quando morirono 68 civili e 144 furono feriti. “Non solo perché il 5 febbraio è il mio compleanno – ci spiega nell’intervista che di seguito pubblichiamo – ma anche perché i serbi hanno dichiarato al Tribunale de L’Aia che la strage è stata un atto autoinflitto di uccisione di sarajevesi innocenti, per provocare un intervento della Nato e così fermare la guerra”. Suona simile, per Ceric, a quello che si sente in questi giorni riguardo a Kiev e alle altre città dell’Ucraina, “dove i russi dicono che gli ucraini si stanno bombardando da soli”.
Dov’era il 6 aprile del 1992 e cosa ricorda di quei primi giorni di guerra?
Ero a Kuala Lumpur, in Malesia. Essendo stato Imam nella Moschea di Zagabria in Croazia, dopo il mio ritorno da Chicago alla fine degli anni ottanta, ho potuto prevedere più chiaramente dei miei colleghi di Sarajevo l’inevitabile arrivo della dissoluzione della Jugoslavia. Ma la forte sensazione dei miei colleghi all’epoca, era che la Bosnia sarebbe stata risparmiata da qualsiasi conflitto, anche militare, del tipo di quello che si era già notato in Slovenia, e con un’evidente irritazione militare anche in Croazia. Quando mi ero trasferito da Zagabria a Sarajevo per insegnare alla Facoltà Teologica Islamica, avevo notato alcune preoccupazioni a Sarajevo per le notizie provenienti dalla Slovenia e dalla Croazia, ma non troppo allarmate da richiedere un’azione. In qualche modo Sarajevo aveva fiducia nella sua innocenza e prudenza. Era difficile comprendere questa apparente tranquillità a Sarajevo in mezzo ai disordini jugoslavi. Nel frattempo, ho accettato una cattedra all’Istituto Internazionale di Pensiero e Civiltà Islamica a Kuala Lumpur, Malesia. Non era prevista, ma è stata la migliore decisione che ho preso. Quando sono arrivate le prime notizie sull’assedio della città di Sarajevo, mi sono subito messo in moto per spiegare ai miei allievi e alla gente malese cosa fosse la Bosnia in Europa e perché avessero assediato la capitale della Bosnia. In effetti, la Malesia ha aperto il suo cuore e ha teso la mano per un aiuto esemplare alla Bosnia, che è stato decisivo nel mantenere il morale della gente di Sarajevo per sopportare più di mille giorni e notti di assedio, che è stato l’assedio più lungo nella storia di una città, più dell’assedio di Stalingrado.
Pensa che sia stato fatto tutto il possibile, da parte dei musulmani bosniaci, per evitare il conflitto che ha causato così tante vittime?
All’inizio non ci era chiaro, ma in seguito ci siamo resi conto che qualunque cosa avessimo fatto per placare l’appetito serbo per la Bosnia, non avrebbe funzionato. Avevano in mente di cancellare la Bosnia come nazione e Stato a vantaggio della Grande Serbia. Guardando indietro ora penso che anche se avessimo accettato una sorta di schiavitù, la politica serba non sarebbe stata soddisfatta. Il modo in cui hanno massacrato la gente sul fiume Drina, bruciato le case nei villaggi, distrutto le moschee e persino le chiese, bombardato ogni giorno la città di Sarajevo, dove hanno ucciso i civili che cercavano di trovare acqua e il modo in cui hanno bruciato biblioteche e archivi, tutte queste atrocità e crimini contro l’umanità sono stati premeditati. La stessa narrazione di negazione della nazione e dello Stato che sentiamo oggi dai russi sull’Ucraina. Quindi, né noi né la nazione e lo Stato dell’Ucraina avremmo potuto fare meglio per impedire alla Serbia e alla Russia di assediare Sarajevo e Kiev.
Qual è il suo ricordo più forte di quei più di mille giorni di assedio, di stragi compiute dalle granate sparate dalle colline contro i civili inermi?
L’atto più efferato di crimine contro l’umanità che non dimenticherò mai è stato il massacro al mercato di Markale il 5 febbraio 1994, quando 68 persone sono state uccise e 144 ferite. Non solo perché il 5 febbraio è il mio compleanno, ma anche perché i serbi hanno dichiarato al Tribunale de L’Aia che il massacro di Markale è stato un atto autoinflitto di uccisione di sarajevesi innocenti, per provocare un intervento della Nato per fermare la guerra. Suona familiare con quello che sentiamo oggi riguardo a Kiev, dove i russi dicono che gli ucraini si stanno bombardando da soli.
Trent’anni dopo, è ancora convinto che la comunità internazionale, e soprattutto gli Stati Uniti, avrebbero potuto intervenire prima, se davvero l’avessero voluto, per fermare l’attacco a Sarajevo e alla Bosnia, con la tempestività che hanno avuto nel 1999 per difendere il Kosovo?
Sì, infatti, se avessero voluto, avrebbero potuto impedire sia l’aggressione allo Stato bosniaco indipendente e riconosciuto a livello internazionale, sia il genocidio contro il popolo bosniaco. Almeno, avrebbero potuto togliere l’embargo sul diritto della Bosnia a difendersi, se avessero voluto. Ma non hanno voluto farlo finché non hanno visto il genocidio avvenuto. L’Ucraina è fortunata almeno perché è stata armata per la sua autodifesa. Lo so, questo non è sufficiente. L’Occidente deve fermare l’aggressione all’Ucraina. Immediatamente. È insopportabile quello che vediamo in Ucraina perché uccidere un innocente è come uccidere l’intera umanità.
Ci sono così tante somiglianze tra l’attacco russo all’Ucraina e l’attacco serbo alla Bosnia, trent’anni fa?
Non solo è simile, ma anche la negazione russa della nazione e dello Stato dell’Ucraina, così come l’accusa di Mosca che l’esercito ucraino sta bombardando la sua stessa gente e le sue città è identica a quello che la Serbia diceva al mondo, quando sosteneva che era l’esercito bosniaco che stava bombardando Sarajevo. Questo è il motivo per cui noi in Bosnia viviamo i giorni dell’Ucraina come se fossero i nostri, perché sappiamo cosa sta passando il popolo ucraino oggi. Le perdite e le ferite fisiche sono dolorose, ma le ferite delle bugie e delle frodi inflitte all’anima umana sono molto più dolorose.
Pensa che il futuro di Sarajevo e della Bosnia potrà ancora essere multietnico?
Esiste da qualche parte un’alternativa alla società multietnica? No, non c’è! In particolare non c’è alternativa in Bosnia, la cui identità fondamentale e storica è multietnica e multireligiosa. Infatti, uno degli obiettivi dell’aggressione e del genocidio della Serbia contro la Bosnia era quello di cancellare la natura multisociale della Bosnia storica. Sono orgoglioso del fatto che il mio popolo bosniaco abbia combattuto e sia morto per difendere il valore della società multietnica bosniaca contro l’apartheid di Karadžić. Il mio popolo sta ancora combattendo contro l’incomprensione e il giudizio errato dell’Europa sul vero spirito europeo di unità nella diversità bosniaca e sul suo vero spirito di riconciliazione europea. Non riesco a capire perché l’Unione Europea si comporta in modo tale da tenere la Bosnia in attesa alla sua porta, mentre la sua porta è stata aperta a Bulgaria, Romania, Ungheria e persino Croazia, che è stata condannata per l’impresa criminale comune (con la Serbia). Credo che la Bosnia avrebbe dovuto essere il primo Paese ad essere accettato come membro dell’Unione europea, prima di uno qualsiasi di questi Paesi dell’Europa orientale. Questo sarebbe stato un sincero riscatto del peccato di complicità nel genocidio contro il popolo bosniaco.
Cosa pensa delle parole di Papa Francesco a Sarajevo, nel 2015, all’incontro interreligioso, quando disse che “i leader religiosi sono i primi custodi della pace in Bosnia-Erzegovina”? La guerra in Bosnia non è stata una guerra di religioni?
No, non c’è mai stata una guerra di religioni in Bosnia. Non allora, non ora e non in futuro. Fin dal suo concepimento come nazione e Stato, la Bosnia ha coltivato il pluralismo e la diversità religiosa. È vero, la Bosnia è sempre stata una specie di “terra degli eretici”, ma questa etichetta è stata forgiata fuori e non dentro la Bosnia. Infatti, la Bosnia è una miniatura dell’Europa nella sua unità della diversità di etnia, religione e cultura. Qui in Bosnia e in nessun altro luogo si ha la voce di chi chiama alla preghiera musulmana a mezzogiorno e il suono della chiamata alla cattedrale cattolica allo stesso tempo. Sì, il Papa Francesco ha ragione: “I leader religiosi sono i primi custodi della pace in Bosnia ed Erzegovina”. La visita del Papa a Sarajevo con il messaggio “Pace su di voi” è stata storica e indimenticabile. Papa Francesco non si limita a predicare, ma mette in pratica ciò che predica. Questo è ciò che ammiro in Papa Francesco.
I giovani, che sono il futuro di Sarajevo e della Bosnia, continuano ad emigrare. Come si può fermare questa fuga dalla vostra terra?
C’è più attenzione ai giovani che lasciano la Bosnia che a quelli che restano qui. C’è sempre stato un flusso di giovani che cercano qualcosa di nuovo e diverso dal luogo in cui sono nati. Ma lei ha ragione. Poiché i politici bosniaci non stanno facendo bene il loro lavoro, alcuni giovani non vedono il loro futuro qui. Perciò vanno da qualche altra parte in cerca di migliori opportunità. Al momento non vedo come fermare questa tendenza. La Bosnia ha bisogno di una garanzia per la sua sicurezza contro la possibilità di un nuovo genocidio.