Piacenza: il diritto canonico è attento all’uomo

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Osservatore Romano

In un contesto che vorrebbe “prestare la massima attenzione all’uomo” ma che poi finisce per dimenticarsene “dopo essersi dimenticato di Dio”, il Diritto canonico è “straordinariamente attento” alla persona e alle sue esigenze, intese “in maniera piena, integrale, come esigenze di relazione, di unità e, ultimamente, di salvezza, di trascendenza”. Lo ha affermato il cardinale penitenziere maggiore Mauro Piacenza nella prolusione per il Dies academicus della Facoltà di Diritto canonico San Pio X, svoltosi mercoledì 10 novembre nel seminario patriarcale di Venezia.

Approfondendo il tema scelto per il suo intervento, “A servizio della Suprema Lex”, il porporato ha insistito sul fatto che quando si parla di “salvezza” il riferimento è alla “salvezza integrale”, che “nulla censura, nulla tralascia, nulla esclude dal suo abbraccio misericordioso”. Per questo, ha fatto notare, se il Diritto è al servizio della salvezza, si può anche affermare che “la salvezza è a garanzia del Diritto canonico”. Infatti, “l’orizzonte salvifico delle persone e della comunità, il loro autentico incontro con Cristo nella verità e nel bene, il loro permanere nella piena comunione ecclesiale, sono l’orizzonte del Diritto canonico e ne rappresentano la garanzia di veridicità e di necessità”. Tanto che – ha ribadito Piacenza riferendosi a quel “paradosso tipicamente ecclesiale” di cui Henri de Lubac è stato maestro – “agire fuori dal Diritto o contro il Diritto indebolisce, e in taluni casi perfino vanifica, l’efficacia dell’atto di evangelizzazione”.

D’altra parte, tutto nel Diritto canonico è e deve essere “relativo alla salvezza”, cioè “in relazione” alla salvezza, sia dei “singoli protagonisti delle varie vicende, sia della salvezza intesa come avvenimento di grazia, che riaccade nella storia attraverso il ministero ecclesiale”. Tale ministero “non può essere esercitato in maniera arbitraria, ideologica o comunque astratta dal concreto vissuto ecclesiale e sociale delle persone”. Ed è esattamente per tale ragione che il Diritto interviene, “conformemente alla natura anche sociale del Corpo ecclesiale, sia a promuovere la necessaria opera di evangelizzazione per l’incontro degli uomini con Cristo”, sia “al servizio della necessaria garanzia comunionale, a livello veritativo e a livello morale, dell’annuncio cristiano”.

Questa seconda funzione, nella quale emerge un ruolo apparentemente più “negativo” o “di controllo”, è in realtà “altrettanto essenziale come la prima”. Da qui l’interrogativo posto dal penitenziere maggiore: cosa ne sarebbe “di un annuncio infedele alla verità e non in comunione con la Chiesa”, oppure di una celebrazione “dell’Avvenimento cristiano nel settenario sacramentale, che diventasse arbitraria e non conforme a ciò che la Chiesa intende celebrare, vivere ed attualizzare”?

Il cardinale ha poi ricordato i vari interventi di Papa Francesco riguardo al rischio di “abusi di potere nel rapporto con le coscienze”. A questo proposito, ha detto, “immaginiamo cosa ne sarebbe, se non ci fosse la norma giuridica posta dalla Chiesa per sollecitare l’obbedienza degli uni e normare, limitandola, la responsabilità degli altri”. Non a caso, ha aggiunto, san Benedetto ricorda sempre che “il primo ad obbedire alla Regola, che è via di santificazione e di perfezione cristiana, deve essere l’abate; solo così sarà davvero padre, solo così sarà esemplare e potrà domandare e ottenere l’obbedienza dei suoi monaci”.

Lo stesso, ha spiegato il cardinale, vale “a un livello diverso e più ampio, all’interno della Chiesa”. Infatti, “l’obbedienza alla legge suprema della salvezza delle anime è garanzia di libertà e di responsabilità per tutti, dal Sommo Pontefice al più giovane dei battezzati”. E proprio in questo continuo dialogo tra libertà e responsabilità – che non “si contrappongono ma sono chiamate a crescere in armoniosa reciprocità” – si colloca “l’indispensabile funzione” del Diritto canonico.

In tal senso, la salvezza delle anime diviene “reale ed imprescindibile orizzonte ermeneutico”, sia nella fase iniziale di formulazione delle leggi, sia nella loro ricezione e interpretazione, sia, infine, nella loro applicazione. In proposito, il penitenziere maggiore ha ricordato che “il gravissimo compito della formulazione appartiene, nella Chiesa, al legislatore”, il quale è “inequivocabilmente e chiaramente individuabile: la suprema autorità, per le leggi universali”. Questo dato è tutt’altro che irrilevante, poiché “il supremo legislatore” è anche e sempre il successore di Pietro, al quale “Cristo ha affidato la custodia dell’intero suo gregge”. In questa espressione e in questa unità tra “supremo pastore e supremo legislatore”, il porporato ha individuato “il luminoso, imprescindibile superamento di ogni possibile dicotomia tra aspetto meramente giuridico e azione pastorale”. Infatti, il “supremo legislatore” è tale proprio perché “pastore universale”, in quanto “non potrebbe esercitare il proprio ministero prescindendo dalla giustizia, veicolata dal Diritto”.

Contrariamente ai secoli passati, attualmente la Chiesa “non ha strumenti umani di coercizione a rispetto del Diritto”. E se ciò può apparire una “debolezza”, ha osservato il porporato, “in realtà tale condizione rappresenta anche la grande forza del Diritto canonico”. Esso si fonda infatti – “non solo nella sua originale formulazione” ma anche e soprattutto “nella sua esistenziale, quotidiana declinazione esperienziale” – “sull’esercizio della libertà umana al cospetto di Dio, di Gesù Cristo Salvatore, sotto la guida dello Spirito Santo, per il bene della Chiesa e dell’umanità intera”.