Alla 16.ma Congregazione generale, alcune riflessioni teologiche e spirituali hanno aperto l’ultima settimana di lavori. Il teologo austrialiano don Ormond Rush: come il Vaticano II anche questa assemblea è chiamata a una comprensione dinamica e non antistorica di quello che Dio chiede alla Chiesa di oggi
Alessandro De Carolis – Città del Vaticano
“Il processo sinodale è organico ed ecologico piuttosto che competitivo. È più simile a piantare un albero che a vincere una battaglia”. Mentre il Sinodo imbocca l’ultima settimana di lavoro e di confronti, lo sguardo si proietta al dopo. A quello che in Aula Paolo VI, in apertura di lavori stamattina, viene definito “un tempo di attesa attiva”, “come una gravidanza”, da cui prenderà vita una “Chiesa rinnovata” o al contrario sterile, se i semi gettati in queste settimane non saranno adeguatamente coltivati. A tracciare con immagini efficaci lo scenario del post-Sinodo è il religioso domenicano padre Timothy Radcliffe, più volte incaricato di offrire una lettura sapienziale di quanto costruito da due anni a questa parte e in particolare dal 4 ottobre scorso.
Linguaggio della speranza o “politico-partitico”
“Tra pochi giorni torneremo a casa per undici mesi. Questo sarà apparentemente un periodo di vuota attesa. Ma sarà probabilmente il tempo più fertile del Sinodo, il tempo della germinazione”, dice il religioso, prendendo la parola all’inizio della 16.ma Congregazione generale. Porta l’esempio biblico di Sara, donna anziana cui viene promessa assieme ad Abramo una discendenza fitta come la sabbia del mare senza che accada inizialmente nulla per poi trovarsi dopa un anno madre di Isacco. “I doni più preziosi non si ottengono andando a cercarli, ma aspettandoli…”, citando ancora una volta Waiting of God. Il rischio, indica ai partecipanti al Sinodo, è quello di “soccombere” una volta rientrati nelle rispettive zone alle pressioni di chi tende a polarizzare ogni confronto con un “modo di pensare politico-partitico”, fatto di schieramenti che escludono opinioni altrui. e ciniche? “Le nostre parole – si chiede padre Radcliffe – nutriranno il raccolto o saranno velenose? Saremo giardinieri del futuro o intrappolati in vecchi conflitti sterili? Ognuno di noi sceglie”.
Il seme, stile di Gesù
Al microfono torna a offrire uno spunto spirituale anche madre Maria Ignazia Angelini, che si sofferma su alcuni passaggi di Gesù del Vangelo per ribadire l’importanza di “narrare parabole più che emanare proclami”, la necessità di trovare un “punto di congiunzione tra la sua presenza e la nostra esperienza” ed evitare che il mistero trascendente risulti “estraneo” all’uomo. E ciò che le parabole rivelano dello stile di Cristo – con i suoi riferimenti al chicco di grano, al seme – è, dice la religiosa benedettina, “il sorprendente senso del piccolo come portatore di futuro”. Tutto ciò, osserva, “dice i gusti di Dio (…) Gesù vede se stesso nell’infimo e nudo e spregevole seme, inapparente, abietto, senza bellezza”, finché, morendo, “attraverso la consegna alla terra si anima in un dinamismo imprevedibile, inarrestabile, ospitale”.
Analogamente a padre Radcliffe, anche la religiosa del Monastero di Viboldone ritiene che la “paziente opera” di questi giorni porti il Sinodo “a osare una sintesi-come-semina, per aprire un cammino verso la riforma – nuova forma -, che la vita richiede”. E questo “più piccolo, carico di futuro”, osserva, diventa anche “un atto profondamente sovversivo e rivoluzionario” in “una cultura della lotta per la supremazia, del profitto e dei ‘followers’, o dell’evasione”.
Tradizione e futuro
Incisivo anche il paragone col Vaticano II portato dal teologo australiano don Ormond Rush, nell’indicare la responsabilità di questa assise sulla sinodalità. “Ascoltandovi in queste tre settimane – ha detto all’assemblea in Aula Paolo VI – ho avuto l’impressione che alcuni di voi stiano lottando con la nozione di tradizione, alla luce del vostro amore per la verità”. Ebbene, ha proseguito, lo fecero anche i padri conciliari e se le loro risposte sono diventate “l’autorità per guidare le nostre riflessioni” sulle questioni di oggi, ciò indica come il Concilio Vaticano abbia una “qualche lezione per questo Sinodo, dato che ora portate a sintesi il vostro discernimento sul futuro della Chiesa”.
Prendendo a prestito le riflessioni di Joseph Ratzinger fatte all’epoca sulla questione della “tradizione” – uno dei “punti di tensione” del Vaticano II – don Rush ha ricordato che la domanda di fondo fu se si dovesse insistere in sostanza con l’“antimodernismo”, ovvero la “negazione quasi nevrotica di tutto ciò che era nuovo” – oppure “se la Chiesa, dopo aver preso tutte le precauzioni necessarie per proteggere la fede, avrebbe voltato pagina e si sarebbe avviata verso un nuovo e positivo incontro con le proprie origini, con i propri [simili] e con il mondo di oggi”. La maggior parte si espresse per la seconda alternativa e dunque, ha affermato il teologo australiano, “si può addirittura parlare del Concilio come di un nuovo inizio”, il passaggio, come disse il futuro Benedetto XVI, da “una comprensione ‘statica’ della tradizione” – “legalistica, propositiva e astorica (cioè rilevante per tutti i tempi e luoghi) – a “una comprensione ‘dinamica”, “personalista, sacramentale e radicata nella storia”, che non si ferma come la prima al passato, ma lo vede “realizzato nel presente” e “aperto a un futuro ancora da rivelare”.
“Dio sta aspettando la vostra risposta”
Sempre nel Concilio, ha proseguito don Rush – sottolineando che “questo è importante per comprendere la sinodalità e lo scopo stesso di questo Sinodo” – la stessa rivelazione divina “è presentata come un incontro continuo nel presente, e non solo come qualcosa che è accaduto nel passato”, per cui Dio “attraverso l’illuminazione e il potere dello stesso Spirito Santo” muove “l’umanità verso nuove percezioni, nuove domande e nuove intuizioni”. Anche questo Sinodo, ha concluso, “è un dialogo con Dio. Questo è stato il privilegio e la sfida delle vostre ‘conversazioni nello Spirito’. Dio – ha detto ai presenti – sta aspettando la vostra risposta”.