Ai media vaticani la visita e il racconto del missionario dei Padri Bianchi rapito in Mali nel novembre 2022 e liberato un anno dopo: “È stato il mio anno sabbatico, ho potuto pregare di più. I rapitori mi hanno trattato bene, con loro ho fatto discorsi sulla fede sempre con rispetto”
Alessandro De Carolis – Città del Vaticano
Che sia dotato di uno spirito non comune, sostenuto da una vena di umorismo che affiora qua e là con garbo, lo si capisce subito dall’originalità di certi paragoni, del tutto singolari se per un attimo si pensa che quell’uomo magro e longilineo dagli occhi chiari, vicino ai 70, li ha formulati mentre era in mano ai jihadisti del Mali senza idea se sarebbe stato ammazzato o no. Così il pezzo di deserto del Sahel, dove i rapitori lo portano dopo averlo preso e infilato in una macchina mentre stava per andare a celebrare Messa, diventa nel racconto di padre Hans Joachim Lohre, religioso tedesco dei Missionari d’Africa, “una specie di campo scout”. E già poche ore dopo il sequestro, quando la paura dovrebbe mordere lo stomaco e svuotare la testa, ha la presenza di spirito di considerare quel dramma un imprevisto ma utile “anno sabbatico”.
Nel campo di progionia
Padre Hans Joachim – “ma tutti mi conoscono solo come ‘Ha-Jo’”, precisa sorridendo – offre ai media vaticani uno spaccato dei suoi 371 giorni di prigionia, dal 20 novembre 2022 al 26 novembre 2023, con una semplicità disarmante. Missionario di lungo corso in Mali, 28 anni, torna a quella domenica del rapimento, quando un’auto si piazza dietro la sua e un miliziano gli intima di essere in arresto mentre contemporaneamente un altro lo afferra da dietro la schiena e lo trascina in un veicolo e via in mezzo al nulla. L’arrivo al primo luogo di prigionia, quello che padre Ha-Jo chiama “campo scout”, offre al religioso una scena che si sovrappone alle sue reminiscenze di prete. “C’erano giovani di 17, 20, 22 anni che vivevano nella campagna, nel bosco, ammazzavano una capra ogni dieci giorni, cucinavano, facevano il pane, preparavano il riso, la pasta”. Una cosa tranquilla se non fossero stati jihadisti armati in un posto sperduto. Il missionario si adatta e cerca il modo di comunicare con chi ha vicino. “Abbiamo fatto molti discorsi sulla fede, sempre con molto rispetto”.
La maglia più giusta
La prima sera gli levano tutti i vestiti, gliene danno altri tra cui una maglia con la scritta I love my King, “Io amo il mio Re”. Quel giorno era la solennità di Cristo Re e il religioso ringrazia con calore il miliziano perché maglia più giusta per lui non può esserci. Il non avere più niente dà valore a quello che conta di più. “Tu puoi prendermi tutto, il passaporto, i vestiti, la macchina, ma non puoi prendermi la mia fede”, afferma col suo tratto bonario. L’“anno sabbatico” comincia così, nella totale incertezza sulla sua sorte e con la certezza che “avrei approfittato per prendermi del tempo per pregare e per avere qualcosa da dire, per non essere, come dice san Paolo, un “cembalo vuoto”. Certamente, riconosce, “mi ha aiutato il fatto di essere trattato bene, con rispetto”. Ma non è stato quello il solo aiuto.
L’“occhiata di Dio”
E qui la storia si fa incredibilmente simile a quella di padre Pierluigi Maccalli, rapito nella sua missione in Niger nel settembre del 2018 e poi liberato nell’ottobre 2021. “Quando ero nel Sahel – racconta padre Ha-Jo – c’era un giovane che ascoltava sempre la radio e allora una volta gliel’ho chiesta dicendo che avrei voluto seguire delle cose”. Un giorno il religioso si sintonizza con i Mondiali e ascolta la diretta i rigori. Ma la vera sorpresa gli capita il 24 dicembre. “Ho preso per caso la radio, ho cercato un po’ e a un tratto ho sentito leggere il Vangelo di San Luca. Era la Messa da San Pietro nella vigilia di Natale. Ho ascoltato l’omelia del Papa, la sua riflessione sulla mangiatoia dov’era stato posto Gesù Bambino, ho seguito tutta la Messa. Mi è sembrata come un’occhiata di Dio che mi diceva: ‘Cristo è anche nato per te e tu non sei solo dove sei’”.
“Questo mi ha sostenuto moltissimo”
Poi il missionario non ha più avuto accesso a una radio fino alla metà giugno quando provvidenzialmente ha potuto riavere un apparecchio. Da quel momento, prosegue, “ho sempre seguito alla Radio Vaticana, dalle quattro e mezzo fino alle cinque e quarto, il programma inglese e francese con le notizie del mondo, della Chiesa. Ho ascoltato l’intervista a dei vescovi sul Sinodo sulla sinodalità e questo mi ha davvero mi ha sostenuto moltissimo. Mi ha dato molta gioia, mi sentivo unito alla Chiesa, contendo di sapere che cosa si stesse facendo, la visita del Papa in Lisbona per la Gmg… E’ stato molto bello”. Padre Lohre non tornerà in Mali, il superiore generale glielo ha vietato perché, dice schiettamente, quelli che lo hanno fatto e sono stati ripresi “nessuno di loro è tornato vivo”. Ma una volta tornato in Germania dopo il sequestro ci teneva a passare in Italia per venire a ringraziare i colleghi della Radio del Papa.
La nuova missione
Non sa ancora cosa farà nel futuro ma l’“anno sabbatico” una cosa gliel’ha insegnata e la spiega con u ultimo aneddoto. “L’ultima giornata, prima di rientrare in Germania, parlando un po’ con l’autista che mi aveva preso nel deserto – sapeva un po’ di francese – a un certo punto mi ha chiesto: ‘Ma cosa ci fanno i preti cattolici in Paesi musulmani come il Mali o come il Niger, la Mauritania, l’Algeria?’. Io ho riflettuto un po’ e gli ho risposto: ‘Fanno quello che tutti i preti devono fare, essere testimoni dell’amore di Dio fra la gente e soprattutto verso i piccoli, i poveri, gli ammalati, i migranti’. E penso che anche la mia missione futura andrà in questa direzione, di essere un testimone di quello che ho vissuto nel deserto”.