Padre Livio Maggi: la popolazione del Myanmar ha bisogno di vicinanza

Vatican News

Michele Raviart – Città del Vaticano

“Un lavoro semplice, ma concreto, trasparente e disinteressato, fatto spesso nel silenzio ma vicino alla popolazione birmana e vicino a chi ha bisogno”. Con queste parole, lo scorso 28 giugno, l’ambasciatrice italiana in Myanmar ha conferito a padre Livio Maggi, da 37 anni missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e direttore della ong “New Humanity International Foundation”, l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. Un riconoscimento, il primo a un cittadino italiano in Myanmar, nato nel 2011 per “premiare coloro che promuovono relazioni bilaterali positive fra l’Italia e il Paese in cui operano”.

Un Paese in crisi

A cinque mesi dal colpo di Stato militare, con centinaia di vittime nel corso delle proteste e centinaia di migliaia di sfollati che vivono una crisi umanitaria più volte ricordata anche da Papa Francesco; con gruppi di resistenza armata che fanno temere un’escalation di violenza e la guerra civile e con il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ai domiciliari e sotto processo, New Humanity International è una delle poche realtà umanitarie ad essere vicina alla popolazione birmana.

Il lavoro di New Humanity International

Fondata dal Pime nel 2019 ed erede della vecchia denominazione “New Humanity”, l’ong lavora anche in Cambogia e in India e in Myanmar si occupa principalmente di inclusione sociale, lotta alle dipendenze, accompagnamento ai disabili e sviluppo agricolo. Padre Livio Maggi arriva in Myanmar e, nell’intervista di Gabriella Ceraso, racconta a Vatican News la sua esperienza.

Ascolta l’intervista a padre Livio Maggi

Io mi metto sulla scia che i nostri antichi padri hanno percorso per 150 anni – i primi tre missionari del Pime arrivarono in Myanmar nel 1866, ndr -. L’ultimo nostro padre è morto qui nel 2007, ma già il Pime nel 2002 aveva iniziato ad operare attraverso New Humanity aprendo in Cambogia e anche qui, continuando con il lavoro fatto dai nostri padri, lebbrosari, scuole, avviamento al lavoro e cercando di capire i bisogni e le necessità della popolazione. Abbiamo lavorato molto nell’agricoltura negli anni scorsi, e negli ultimi anni ci siamo concentrati molto sull’educazione. Siamo l’unica organizzazione che lavora in un carcere minorile, ad esempio, e stiamo lavorando per le dipendenze da droga e alcol nei giovani e nei giovani adulti. Poi c’è l’impegno sulla disabilità, con cui abbiamo un bell’accordo con la Fondazione Don Carlo Gnocchi che lavora con noi.

Che cosa serve alla popolazione in questo momento?

Alla popolazione serve molta vicinanza, serve molta accoglienza. Questa è l’esperienza che stiamo facendo e loro sentono che noi siamo vicini alla gente, in particolare ai più affaticati e ai più disperati. Per la disabilità siamo gli unici presenti in zone molto remote, dove non ci sono strutture adeguate. Non facciamo miracoli, evidentemente, ma piccoli passi. Abbiamo la possibilità di educare le famiglie, di dare spazio a quelle disabilità che si possono recuperare in alcuni aspetti, accogliendo il ragazzo o il bambino disabile e offrendogli una possibilità di autonomia.

Oggi è tutto più difficile…

È molto difficile, è molto difficile. Adesso vedremo, ma noi non ci ritiriamo perché siamo qui per la gente

Il premio che lei ha ricevuto che speranze dà al futuro, quali spinte?

Non è un premio, è un riconoscimento, l’ho sempre detto. Non è per me, è per una storia che è più grande di me e che viene prima di me. È la presenza della Chiesa del Pime, che è la Chiesa dei missionari che hanno servito il popolo. Questo vorremmo continuare a fare in quest’ora e in questa loro scia. Io sono nelle retrovie e, data anche la mia età, faccio un po’ da supporto agli altri confratelli e a tutto lo staff che è qui e che lavora qui in prima fila.

C’è speranza per le giovani generazioni?

Non so rispondere. Vorrei dire che c’è la speranza per insistere. Bisogna non mollare.