Ucciso dalla furia nazifascista nel novembre del 1944, il venerabile padre Placido Cortese costituì una rete clandestina per aiutare ebrei, soldati italiani allo sbando ed oppositori politici a non finire nei campi di concentramento e di sterminio. Nei giorni del ricordo e di commemorazione, oggi una celebrazione eucaristica nella basilica di Sant’Antonio di Padova. Popolarmente, il religioso è anche indicato come il ‘martire del silenzio’ perché non rivelò mai i nomi di chi lo aveva aiutato
Federico Piana- Città del Vaticano
Questa è una storia che inizia dalla fine. Siamo nel 1995 quando una donna, sopravvissuta alle torture naziste, racconta, in un contesto commemorativo della seconda guerra mondiale, di aver visto nel novembre del 1944 un sacerdote rinchiuso in una piccola cella della sede triestina della Gestapo dove anche lei è detenuta. La voce del religioso è estremamente sofferente, probabilmente la polizia segreta di Hitler non gli ha risparmiato nessuna sevizia. La donna lo conosce bene, sa che il religioso da tempo aveva creato una rete clandestina per tentare di strappare dalle grinfie tedesche chi doveva finire nei campi di concentramento e di sterminio.
Inizia l’oblio
Dopo averlo intravisto solo per pochi istanti, dal tamtam tra i detenuti viene a sapere che per lui non c’è stato nulla da fare: il tragico epilogo è stata la morte. In quella metà degli anni ’90, la testimonianza della sopravvissuta squarcia per la prima volta il velo dell’oblio che da mezzo secolo aveva celato il destino di padre Placido Cortese. I suoi confratelli, frati minori conventuali, fino al quel momento sapevano solo che l’8 ottobre del 1944 era stato prelevato con l’inganno e con la forza dalla piazza antistante alla basilica di Sant’Antonio di Padova. Poi più nulla. Nessuna notizia, nessuna informativa dell’arresto o dell’esecuzione. Il suo corpo non verrà più trovato, forse sarà stato cremato nella Risiera di San Sabba, campo di concentramento tedesco di Trieste nel quale furono uccise migliaia di persone.
Per non dimenticare
Gli ottant’anni dal decesso, che si compiono proprio in questo mese di novembre, sono l’occasione per tornare a riaccendere i riflettori sulla vita di quello che viene considerato “martire della carità”, dichiarato venerabile da Papa Francesco nel 2021. A questo proposito, oggi, domenica 24 settembre, nella basilica di Sant’Antonio di Padova si celebra una messa di commemorazione presieduta da monsignor Franc Šuštar, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi Ljubljana e segretario generale della Conferenza episcopale slovena mentre ieri, sempre in basilica, si sono svolte una mostra e la presentazione di un libro che ne hanno rievocato la vita e le gesta.
Amore sconfinato
Il legame di padre Cortese con la Slovenia ha direttamente a che fare con la carità. «Dal 1937 al 1943 si prese cura dei deportati sloveni e croati nei campi di concentramento italiani, in particolare quello di Chiesanuova, alla periferia di Padova» ricorda, in una conversazione con i media vaticani, padre Giorgio Laggioni, vice-postulatore della causa di beatificazione e sacerdote professo dei frati minori conventuali. Con l’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943, con il quale il Regno d’Italia si arrende incondizionatamente agli alleati, l’opera di padre Cortese si trasforma in clandestina: «Prima di quella data, entrava senza nessun problema nei campi di detenzione italiani, portando sollievo e conforto. Ma dopo l’occupazione tedesca tutto cambia, peggiora. È a questo punto che si rivolge ancora di più agli ebrei, ai militari alleati allo sbando e ad altri perseguitati dal regime nazifascista.
Missioni pericolose
Con l’aiuto di generosi collaboratori e collaboratrici, riuscì a metterne in salvo alcune centinaia. È il suo confessionale nella basilica di Sant’Antonio di Padova a diventare il centro dove riceve richieste d’aiuto ed organizza pericolose missioni di salvataggio: «Parlavano in codice. Ad esempio, gli dicevano: padre, ci sono dieci scope da sistemare. E lui capiva che erano dieci persone da strappare alle torture e alla morte facendole scappare fuori dai confini nazionali, soprattutto in Svizzera, falsificando tutto, anche i documenti. Le foto necessarie le lasciavano addirittura sulla tomba di sant’Antonio».
Il grande inganno
Quell’8 ottobre del 1944 il suo grande cuore generoso lo trae in inganno: «I nazisti, che avevano scoperto la sua rete clandestina, non potevano arrestarlo all’interno della basilica perché era considerata zona extraterritoriale. Allora, ecco l’astuzia che fa leva sulla sua carità: gli fanno credere che una persona, che si trova fuori nella piazza, ha bisogno di lui: va, senza indugio, ed appena esce lo arrestano». Da quel momento, sulla sua sorte, il buio: fino alla rivelazione del 1995. «Per noi — afferma il vicepostulatore della causa di beatificazione — padre Cortese ha vissuto il “martirio di carità” come il confratello san Massimiliano Kolbe, ucciso ad Auschwitz nel 1941». Intanto, popolarmente viene definito anche il “martire del silenzio” perché non denunciò mai chi collaborò con lui nonostante le torture e le sevizie mortali che subì nel tugurio della Gestapo.