Fabio Colagrande – Città del Vaticano
“Papa Francesco non vuole riformare la Chiesa, ma piuttosto riportare sempre di più Cristo al centro. Sarà poi Lui a fare le riforme”. Ne è convinto padre Antonio Spadaro, il gesuita direttore de La Civiltà Cattolica che fu il primo a intervistare il Pontefice otto anni fa, poco dopo la sua elezione al Soglio di Pietro. Padre Spadaro è intervenuto in una puntata del programma di Radio Vaticana “La Finestra del Papa” a cui ha preso parte anche il vicedirettore editoriale dei media vaticani, Alessandro Gisotti.
Per il gesuita è impossibile leggere le riforme di Francesco senza entrare nella dimensione del “discernimento ignaziano” che guida la sua azione riformatrice. Dal canto suo, Gisotti ha sottolineato che “il tema della fraternità è ben presente fin dall’inizio del Pontificato, fin dalle sue prime parole la sera del 13 marzo del 2013”. Quindi, ha osservato che oggi è possibile “rileggere questi primi otto anni attraverso le lenti del viaggio in Iraq della settimana scorsa. Un viaggio profetico che ci ha fatto vedere concretamente che la fraternità è possibile e richiede un impegno di tutte le persone di buona volontà”. Per riassumere questi otto anni di Pontificato, anche padre Spadaro muove la riflessione dalla visita di Francesco in Iraq, da questo storico viaggio nella terra di Abramo, che il gesuita ha potuto seguire da vicino stando al seguito del Papa. Ecco la trascrizione della sua intervista a Radio Vaticana:
R. – In fondo questo viaggio In Iraq rappresenta quasi un simbolo del pontificato di Francesco. Un viaggio che ha voluto toccare delle ferite aperte, maturate nel corso del tempo e dovute anche a interessi di paesi che sono all’esterno dell’Iraq. Ferite che però hanno provocato un esodo dei cristiani e tensioni molto forti tra i popoli del Paese, rivestite di carattere religioso, come la conflittualità tra sunniti e sciiti. Quindi un viaggio simbolo di un pontificato che tocca con mano le ferite, consapevole delle dinamiche del mondo e che vuole portare il messaggio del Vangelo nei luoghi più periferici, disparati e forse anche disperati come appunto l’Iraq, che ha vissuto quarant’anni di fatto di tensioni e di guerra. Il pontificato della misericordia si esprime proprio anche così.
Quindi un viaggio che ha condensato alcuni aspetti chiave del magistero di questi otto anni?
R. – Sì, innanzitutto la consapevolezza della storia, quindi di quello che avviene, perché il messaggio cristiano non è astratto e bisogna perciò stare con gli occhi aperti. Poi la predicazione del Vangelo nei luoghi più lontani e più difficili e questo messaggio di misericordia e di unità che esprime un cristianesimo a servizio del bene di tutti. In Iraq abbiamo capito che la fraternità umana – che è un tema fondamentale ormai del Pontificato – si declina anche in un impulso a vivere bene la cittadinanza.
Lei ha scritto che il “discernimento non ideologico” è la struttura sistematica della riforma che Francesco porta avanti da otto anni. Quali sono secondo lei i frutti più evidenti prodotti da questo processo?
R. – Il discernimento è qualcosa di estremamente delicato e fondamentale che sta alla base dell’azione di Francesco. Lui non applica alla storia categorie astratte, visioni precostituite ma si relaziona alla storia concreta e da qui ragiona, ma soprattutto prega. Quindi un’azione alla luce del discernimento che consiste nel capire la volontà di Dio nel momento presente e comportarsi di conseguenza. Da questo punto di vista nel pontificato di Francesco, c’è un processo di riforma che non ha nulla a che vedere con atteggiamenti “donchisciotteschi”, quasi si dovesse combattere contro i mulini a vento. È piuttosto un agire lento caratterizzato da una grande attenzione per i processi che avvengono, una maturazione progressiva che porta a un cambiamento delle cose. Noi stiamo infatti vivendo – possiamo dire – una stagione di Chiesa che rappresenta un frutto maturo del Vaticano II. Pensiamo ad esempio, a livello interno, all’impulso che il Papa ha dato alla sinodalità o anche alla dimensione della “Chiesa in uscita”, di cui si parla spesso ma che di fatto significa una Chiesa che si espone, senza proteggersi troppo. Poi ci sono tanti altri processi in corso, sono processi di chiarificazione. Quello per esempio legato alla protezione dei minori – e quindi alla dimensione degli abusi – e poi quello relativo alla dimensione economica. Sono tutti processi che Francesco sta accompagnando, che richiedono grande attenzione e fanno parte di questa visione della riforma. Una volta, in maniera privata, chiesi a Papa Francesco, se voleva fare la “riforma della Chiesa”, lui rimase in silenzio qualche istante, quasi sgranando gli occhi e poi mi rispose: “No, io voglio solo mettere Cristo sempre più al centro della Chiesa, poi sarà Lui a fare le riforme”.
Dopo otto anni ha l’impressione che alcuni osservatori facciano fatica a leggere l’insistenza di Francesco su temi come l’immigrazione, i poveri, l’ambiente, la fratellanza?
R. – Sì, certamente e questo avviene sin dall’inizio del pontificato. Il fatto è che il messaggio di Francesco è un messaggio evangelico e non di tipo politico o sociale. Certo, il suo messaggio ha anche evidentemente una ricaduta diretta sulle politiche e sul modo di gestire la vita sociale e le sue priorità. D’altra parte, quello che lui annuncia è Vangelo puro, quindi per capirlo bisogna confrontarsi col Vangelo.
Fra pochi giorni sarà il primo anniversario della preghiera straordinaria del Papa “in tempo di pandemia” in Piazza San Pietro del 27 marzo 2020. Un altro gesto che aiuta a riassumere lo stile di questo Papa…
R. – Sì, è stato un gesto veramente riassuntivo e per molti aspetti. Sappiamo quanto il Papa tenga al rapporto diretto e immediato con le persone, direi proprio al rapporto fisico: vederle, toccarle, salutarle… Durante la pandemia questo è stato assolutamente impossibile e Francesco ha voluto trovare il modo – e l’ha trovato – per entrare in contatto profondo con tutti noi che eravamo chiusi in casa. C’era questo lockdown generale, non era possibile un contatto, e lui si è mostrato così, solo in una Piazza San Pietro deserta. Quelle immagini che sono giunte ai televisori e ai media di tutto il mondo hanno permesso di creare un contatto empatico diretto col Pontefice e hanno trasmesso un messaggio di consolazione che era esattamente quello che lui voleva comunicare, con questa sua assoluta sobrietà.