Salvatore Cernuzio – Inviato a Juba
Hanno il colore dell’ebano ma la fragilità di un cristallo. Moses, Juma, Adia, Mam-Ghereng, Emmanuel e Majok, 2 anni, idrocefala, in braccio alla mamma che la culla facendo attenzione ai movimenti del capo, sono il volto di quella sofferenza dei bambini dinanzi alla quale, come ha detto tante volte il Papa, non c’è risposta ma solo lacrime e preghiere. Sono solo sei dei circa 400 piccoli ospiti del Centro per bambini disabili di Usratuna, nome arabo che tradotto alla lettera significa “Nostra famiglia”. È il servizio che ormai da anni svolge in Africa l’Ovci- La nostra famiglia, organismo di volontariato nato in Italia quarant’anni fa per la cooperazione e lo sviluppo.
“Qualsiasi cosa fai, falla con amore”
Nella casa a Juba, una vera e propria grande casa, perché tale è l’atmosfera grazie al lavoro e alla dedizione di Daniela, Elena, Gisella, Anna, Tiziana, consacrate laiche delle Piccole Apostole, insieme ai cooperanti principalmente italiani, si offrono cure non solo ai malati – principalmente quelli con la spina bifida e idrocefalia – ma anche alle loro famiglie. Alle mamme in particolare che necessitano anche di sostegno psicologico. In questo villaggio dove si viene accolti dalla scritta “Whatever you do, do it in love” (“Qualsiasi cosa fai, falla con amore”), il cardinale Pietro Parolin, dopo la Messa al Seminario St. Peter’s Major e la visita all’Università Cattolica, trascorre l’ultima tappa del suo viaggio in Africa, iniziato il 1° luglio nella Repubblica Democratica del Congo e concluso in Sud Sudan.
I bambini protagonisti del viaggio
Un viaggio accompagnato per tutto il tempo dalla presenza di bambini: quelli danzanti e vestiti a festa nelle Messe pubbliche, quelli ammassati nel campo sfollati di Bentiu, tra mosche e pozzanghere, che aspettavano solo che qualcuno gli stringesse la mano, quelli scalzi in fila lungo i cigli della strada, fuori dai tukul e dentro le fosse dove, secondo una nuova ordinanza del sindaco, bisogna bruciare la spazzatura. Ora sono ancora i bambini ma quelli malati a concludere questa carrellata di volti e sorrisi che il cardinale segretario di Stato porta a Roma, come dono da trasmettere al Papa in vista del suo prossimo viaggio apostolico.
L’affetto del Papa
Anche alla comunità del centro di Usratuna, Parolin, come in tutti gli eventi di questi giorni africani, ribadisce l’affetto del Papa. A suo nome, li incoraggia e gli dà forza; a suo nome, dà la benedizione; a suo nome, li accarezza, facendo attenzione alle loro fragilità fisiche, alle flebo attaccate, alle braccia fasciate, o, semplicemente, alla loro paura di vedere un signore di bianco, con una corona di festoni, accovacciarsi per stringergli la manina. “No, no, non piangere”, dice il cardinale a una bimba, più grande rispetto alle altre, che si nasconde tra i vestiti della mamma.
Il coro dei bimbi disabili
Il segretario di Stato è stato accolto all’ingresso da un coro di bambini con la maglietta arancione. Uno di loro, senza braccia, consegna un mazzo di fiori. È una immagine simbolica e potente. Un altro bimbo ricciolino, cieco, canta un motivetto al microfono che gli regge una cooperante: “Welcome dear cardinal”. L’accoglienza è vivace, ma, girando l’angolo, l’impatto diventa violento. Parolin percorre i due corridoi dove le mamme con i loro bambini, con evidenti disabilità e malformazioni, sono sedute a terra su teli colorati, tutte in fila pronte al saluto. “God bless you, Dio vi benedica”, ripete il cardinale, accompagnando il gesto con carezze e segni della croce sulla fronte.
La carezza a mamme e figli
Poi entra nelle diverse stanze dove sono in corso alcune delle terapie, che includono anche sedute per bimbi autistici. Sono due, una vestita di rosa suona lo xilofono in onore dell’illustre ospite. “Che brava!”, dice Parolin. Le mamme intanto sorridono, alcune hanno occhi spenti e stanchi, non si accorgono neppure delle mosche sul volto dei figli, ma quando passa il cardinale mostrano contente i loro bambini. Hanno superato da tempo quell’impatto che invece colpisce come un calcio nella pancia chi vede queste immagini per la prima volta.
Un piccolo Cristo in croce
Anche Parolin sembra colpito. Cerca di salutare tutti senza dimenticare nessuno: si piega in avanti, si inginocchia, protende le mani, dà buffetti sulle guance. Solo una volta si ferma, quasi come in contemplazione di quello che somiglia a un piccolo Cristo crocifisso. È un bambino di poco più di 8 anni. Al posto dei chiodi, ha le siringhe delle flebo; sulla testa non la corona di spinte, ma una parte della mascella completamente spostata da un lato; la barella al posto della croce. È sottoposto a cure speciali, forse non ha molto tempo da vivere. “Raramente abbiamo le forze per accompagnare questi casi difficili. Spesso mancano anche le forze spirituali e psicologiche”, spiega Matteo, cooperante bolognese di 33 anni, da uno a Juba con la moglie Carola. “La gente qui sembra essere più abituati alla morte, come ciclo naturale della vita. Per noi è devastante”.
“Rappresentano Gesù…”
Dopo la sosta nel dispensario, Parolin si sposta nel cortile principale e prega un Padre Nostro insieme a mamme e bambini, a cui ribadisce di essersi recato nel Centro come messaggero del Papa, del suo affetto, del suo desiderio di essere con loro. Subito dopo raggiunge in auto il St. Mary’s College, collegio interno al Centro che aiuta gli stessi familiari dei malati a specializzarsi nell’assistenza dei disabili. Canti e urla, petali di fiori lanciati da cestini, cori di “Wow! Alleluja!”, salutano il porporato che incoraggia a proseguire nella cura di questi piccoli sofferenti: “Loro rappresentano Gesù”.
La Chiesa che accompagna
E di sofferenza – delle donne, dei giovani, dei bambini, delle vittime della guerra – il segretario ne ha parlato con quattro studenti dell’Università cattolica di Sudan e Sud Sudan, un serbatoio di speranza nel Paese che prepara i leader di domani per un futuro di pace e riconciliazione. Il cardinale Parolin li ha incontrati durante la visita alla comunità di studenti, docenti, operatori, anch’essa caratterizzata da musica, danze, lancio di fiori. Tuik, Clementina, Christine, Helena, quest’ultima in particolare ha chiesto dove sia la Chiesa nelle situazioni di sofferenza. “La Chiesa è presente in queste situazioni, è un segno di speranza”, ha risposto Parolin, ricordando l’esperienza nel campo di Bentiu dove, accanto agli sfollati, c’erano catechisti e missionari. “Noi siamo là, non abbandoniamo, siamo accanto, camminiamo anche nelle difficoltà”.
Non siamo soli
È importante questo, ha detto il cardinale, perché attesta “che non siamo soli”. Da qui un’altra domanda, questa volta del porporato: “Mi dici cosa fa la Chiesa, ma io chiedo: chi è la Chiesa? Noi siamo la Chiesa. Certo, ci sono le gerarchie, i preti, le suore, ma tutti i fedeli sono parte della Chiesa. Quindi la domanda è: cosa facciamo noi per questa gente? Dobbiamo realmente impegnare noi stessi”. Al termine del botta e risposta, il cardinale, con zappa e annaffiatoio, ha piantato un albero di fico, simbolo di rinascita per l’Ateneo, che ha da poco compiuto vent’anni. “Avete un passato corto ma un lungo e luminoso futuro”.