Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
Sei pronto a morire per Cristo e a non rinnegare la tua fede? A questa domanda ha risposto, con una suprema testimonianza di amore, una schiera immensa di uomini e di donne “che hanno sacrificato la vita per rimanere fedeli a Gesù e al suo Vangelo” (Papa Francesco, Angelus del 23 giugno del 2013). Anche oggi, come ha ricordato il Pontefice in più occasioni, sono tanti i martiri in diverse parti del mondo, più che nei primi secoli, a dare la vita per Cristo. Il primo martire, in oltre duemila anni di storia del cristianesimo, è Santo Stefano. La sua vicenda è raccontata negli Atti degli Apostoli. Ebreo di origine ellenistica, Stefano ha una profonda conoscenza delle Sacre Scritture. Intorno all’anno 36 d.C, viene condotto nel Sinedrio a causa della sua predicazione e viene lapidato per aver proclamato la Parola di Dio.
Santo Stefano “aveva gli occhi aperti su Dio”
Un aspetto particolare nel racconto degli Atti degli Apostoli, che avvicina Santo Stefano al Signore, “è il suo perdono prima di morire lapidato” (Papa Francesco, Angelus del 26 dicembre 2015). Anche nella Divina Commedia, Dante racconta di aver assistito ad una scena toccante: quella della lapidazione di Stefano che, morente, invoca il perdono per i suoi persecutori. Santo Stefano, ha sottolineato il Papa all’Angelus del 26 dicembre del 2018, muore come Gesù “affidando la propria vita a Dio e perdonando i suoi persecutori”. “Stefano è stato capace di perdonare i suoi uccisori perché, pieno di Spirito Santo, fissava il cielo e aveva gli occhi aperti su Dio”.
Dalla gioia di Betlemme alla Croce
La Chiesa ricorda Santo Stefano il 26 dicembre, il giorno dopo il Natale. “Potrebbe sembrare strano – ha sottolineato Papa Francesco il 26 dicembre del 2018 – accostare la memoria di Santo Stefano alla nascita di Gesù, perché emerge il contrasto tra la gioia di Betlemme e il dramma di Stefano, lapidato a Gerusalemme nella prima persecuzione contro la Chiesa nascente. In realtà non è così, perché il Bambino Gesù è il Figlio di Dio fattosi uomo, che salverà l’umanità morendo in croce”. “Ora lo contempliamo – ha spiegato il Santo Padre – avvolto in fasce nel presepe; dopo la sua crocifissione sarà nuovamente avvolto da bende e deposto in un sepolcro”.
Memorie da custodire
A Roma nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, grazie alla cura della Comunità di Sant’Egidio, è custodita e venerata la memoria di tanti testimoni della fede del XX e del XXI secolo. Nella prima cappella della navata destra sono ricordati i testimoni della fede dell’Asia, dell’Oceania e del Medio Oriente. Nella cappella successiva si ricordano i testimoni della fede delle Americhe. Nell’ultima cappella della navata di destra si ricordano i testimoni della fede uccisi nei regimi comunisti. Nella navata di sinistra, la prima cappella è dedicata ai testimoni della fede in Africa. Nella cappella successiva sono ricordati i testimoni della fede di Spagna e Messico. L’ultima è la cappella dei testimoni della fede uccisi sotto il regime nazista. “Tanti sono caduti – ha affermato Benedetto XVI il 7 aprile del 2008 durante la Messa nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina – mentre compivano la missione evangelizzatrice della Chiesa: il loro sangue si è mescolato con quello di cristiani autoctoni a cui era stata comunicata la fede”.
Chiesa di martiri
“Ricordare questi testimoni della fede e pregare in questo luogo è un grande dono”. “La Chiesa – ha detto Papa Francesco il 22 aprile del 2017 durante l’omelia nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina – è Chiesa se è Chiesa di martiri”: “Io vorrei, oggi, aggiungere un’icona di più, in questa chiesa. Una donna. Non so il nome. Ma lei ci guarda dal cielo. Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne, con tre bambini. Mi ha guardato e mi ha detto: Padre, io sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Nel nostro Paese sono venuti i terroristi, ci hanno guardato e ci hanno chiesto la religione e hanno visto lei con il crocifisso, e le hanno chiesto di buttarlo per terra. Lei non lo ha fatto e l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto!”. “Questa – ha aggiunto in quell’occasione Francesco – è l’icona che porto oggi come regalo qui”.
Testimoni di ieri e di oggi
La festa del primo martire, Santo Stefano, ci esorta a ricordare tutti i martiri di ieri e di oggi…
Come è anche evidente nella predicazione di Papa Francesco, il martirio non è una realtà del passato, ma una realtà del presente della Chiesa: in tante parti del mondo i cristiani soffrono a causa della loro fede e per questo perdono anche la vita. Questa non è una realtà marginale, non può essere vista solo come un fenomeno connesso a determinate e particolari situazioni. È qualcosa che mostra una realtà profonda della Chiesa: fin dall’inizio della storia della Chiesa, i cristiani hanno vissuto una fedeltà al Vangelo talmente profonda da portarli, a volte, a vivere la stessa esperienza di Cristo, cioè il dono della vita. Nella tradizione della Chiesa, i martiri venivano identificati con Cristo. Il loro dono, nella fedeltà al Vangelo, era visto come un ripercorrere la Via Crucis.
La festa di Santo Stefano, all’indomani del Natale di Nostro Signore, ricorda anche proprio lo stretto legame esistente tra l’incarnazione e la passione, tra il Natale e la Pasqua….
E ci fa capire come il martirio sia comunque sempre espressione di una realtà di amore: anche questa festa di Santo Stefano così vicina ad una festa piena di amore come quella del Natale, ci esprime il fatto che il martirio sia una profonda espressione di amore. Un amore che non si nega e che è talmente fedele fino al punto di offrire anche la vita. Tanti martiri sono morti proprio perché hanno voluto essere vicini alle persone loro affidate, malgrado i pericoli. Tanti cristiani sono stati uccisi perché sono rimasti in zone di guerra o in zone altamente rischiose da cui tutti erano fuggiti. Hanno dato la vita proprio perché hanno deciso di rimanere accanto al loro popolo, accanto alla loro gente. Credo che questo sia il segno del martirio cristiano: un martirio che ci parla di amore e non di odio. Ci parla di persone che rispondono all’odio con l’amore, che rispondono alla violenza con la preghiera e la testimonianza inerme: i martiri non chiedono vendetta ma ci chiedono di vivere un amore all’altezza di quello che loro hanno vissuto.
Entriamo nella Basilica di San Bartolomeo all’isola. Dopo il Giubileo del 2000, San Giovanni Giovanni Paolo II ha voluto che questa Basilica divenisse il luogo Memoriale dei Nuovi Martiri. Sull’altare maggiore, nel 2002, è stata posta la grande icona dedicata ai Testimoni della fede del XX secolo. Recarsi in questo luogo, affidato alla Comunità di Sant’Egidio, significa anche compiere un pellegrinaggio alla memoria di questi martiri…
Un pellegrinaggio con cui far emergere tante volte dalla dimenticanza luoghi di sofferenza, luoghi geografici ma anche luoghi storici: ci sono cappelle dedicate a martiri che hanno sofferto durante il regime nazista o sotto i regimi comunisti. Ci sono anche cappelle dedicate a martiri che hanno donato la vita in Africa, in Europa, nelle Americhe, in Asia, in Oceania, in Medio Oriente. È un po’ come fare il giro del mondo, ma anche esercitare la memoria del cuore nel ricordare storie distanti dalle nostre, ma per questo non meno importanti.
Anche questo XXI secolo è segnato dal martirio. “L’ottanta per cento di tutti coloro che vengono perseguitati per la loro fede – come ha ricordato il cardinale Kurt Koch lo scorso 25 aprile alla celebrazione ecumenica nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina – oggi sono cristiani”. E sono tanti i martiri in tante parti del mondo, e più che nei primi secoli…
Tra i motivi principali di questo c’è il fatto che i cristiani mantengono una fedeltà – penso a tanti missionari, sacerdoti, religiosi, religiose, laici – alle persone e al popolo in condizioni molto difficili: in tante situazioni di conflitto, in guerre civili o in situazioni di estrema violenza – come nei Paesi flagellati dalla violenza dei narcotrafficanti – ci sono tante vittime proprio perché sono accanto alla sofferenza delle persone. E la loro testimonianza, la loro vicinanza dà fastidio. Credo che, in questo senso, anche storie vicine a noi come quella di don Puglisi siano estremamente significative. Quando i cristiani sono accanto ai poveri, ai deboli – nel caso di don Puglisi accanto ai giovani – e testimoniano una proposta diversa di vita, questo invece dà fastidio a chi, invece, vuole arruolarli come manovalanza nelle organizzazioni criminali
Una testimonianza dunque che diventa vicinanza, amore. Il martirio non è mai sterile: “Il sangue dei martiri – scrive Tertulliano – è seme di nuovi cristiani”…
Si, mi ha colpito molto una testimonianza del Patriarca Athenagoras: nel 1968, in una famosa intervista rilasciata ad un teologo francese ortodosso, parlando dei cristiani russi diceva che questi hanno vinto con la loro testimonianza di pace, con il sangue dei loro martiri. I cristiani, aveva detto il Patriarca Athenagoras nel 1968, hanno già vinto. Dirlo nel 1968 era difficile: non sembrava che quella testimonianza avesse vinto. Anzi, il sistema sovietico sembrava più forte che mai. Ma c’ è qualcosa che i martiri smuovono nel profondo. Credo che la testimonianza di tanti martiri in zone di conflitto – penso a tanti martiri che hanno sofferto a causa del terrorismo e a causa di tante guerre in molte parti del mondo – smuova nel profondo la realtà storica che stiamo vivendo. Noi non ce ne accorgiamo, diceva il Patriarca Athenagoras, e vediamo degli eventi storici solo la superficie. Ma nel profondo tutto è cambiato: credo ci sia un cambiamento che i martiri producono nel profondo delle dinamiche della storia.