Le fotografie di Salgado per conoscere e difendere l’Amazzonia

Vatican News

Antonella Palermo – Città del Vaticano

E’ l’immersione di tutti i sensi in una porzione di mondo che non può più non riguardarci. Frutto di sei anni di viaggio nell’Amazzonia brasiliana, anche fin dove nessuna civiltà occidentale si è mai spinta, la mostra fotografica di Sebastião Salgado è l’incanto e la solennità, il mistero e l’incontro; soprattutto è l’invito ad abbandonare ogni bramosia predatoria per ascoltare uomini e donne fieri, presidio di bellezza maestosa e fragile. Abbandonarsi ai suoni autentici della foresta, al piumaggio degli animali che diventa ornamento, al fango che diventa maschera. 

Il più grande laboratorio naturale del mondo

Varcare le traiettorie proiettate dai pannelli fotografici che pendono dal soffitto, e muoversi attorno, scoprire ambedue le facce della superficie in bianco e nero, e poi sostare davanti alle immagini sul perimetro della sala, e poi ancora entrare ed uscire dalle ‘ocas’, che riproducono le tipiche abitazioni indigene nel cuore della giungla, è davvero avere la suggestione di accompagnare l’autore del viaggio penetrando, con rispetto e meraviglia, attraverso accessi difficili, sconcertanti, dove si mescolano sospetto e curiosità, permeabilità e difesa. Si ha l’impressione di poter lambire con le mani i ‘fiumi volanti’, carichi di umidità, che influenzano i modelli climatici dell’intero pianeta e che subiscono gli effetti del surriscaldamento globale. Se scomparissero alla intercettazione degli sguardi dall’alto, vorrebbe significare che la foresta non esiste più. E il rischio è costante, cammina inesorabile. Visitare Amazonia è anche toccare le vette inattese che si ergono dai bassopiani, agganciarsi alle isole nella corrente del Rio Negro, dai contorni che variano di continuo. E’ nuotare tra vapori, precipitazioni così intense da assumere le sembianze di un fungo atomico. Nebbie, alberi vertiginosi, imbarcazioni contro sole, che rigano una mappa nota solo ai più abili.

Nelle ‘ocas’ degli indigeni

E allora quella che è una terra inarrivabile e insondabile, non lo è più tanto, apparentemente lontana ma oltremodo vicina. Come dietro a tutti i lavori del maestro Salgado, da sempre attento a restituirci scatti di umanità in cammino, ferita, ammutolita, anche in questo viaggio c’è un impegno straordinario di forze sotto il profilo logistico, tecnico, relazionale. Dietro le immagini di gruppi familiari in posa o di ritratti singoli, c’è tutto un tempo di attesa da immaginare, tutta la durata di chi entra senza invadere. Salgado ha visitato una dozzina di tribù indigene che esistono in piccole comunità sparse nella più grande foresta tropicale del mondo documentandone la vita quotidiana, i loro caldi legami familiari, la caccia e la pesca, il modo in cui preparano e condividono i pasti, il loro meraviglioso talento nel dipingere i loro volti e corpi, il significato dei loro sciamani, le loro danze e rituali. 

E allora apprendiamo che durante le feste più importanti, le comunità Xingu, che aspettano la visita dei membri degli altri villaggi, preparano cibo in abbondanza per offrirlo ai propri ospiti durante il loro soggiorno, sincerandosi che ne portino via un po’ tornando a casa. Apprendiamo che tra i Suruwaha, il completamento del tetto di una capanna, se svolto da un solo uomo, può richiedere fino a tre anni di lavoro. Poi incontriamo i Marubo di Maronal, che vivono in spaziose case comuni, ma dispongono anche di piccole capanne ubicate attorno alla maloca principale dove ripongono arnesi, maschere rituali o armi da fuoco. Ed ecco che appaiono anche gli Zo’é (significa “sono me”), nello Stato del Parà. E’ probabile che abbiano usato questa espressione all’epoca dei primi contatti, come a voler dire “siamo persone”. E’ di questa comunità indigena, riconoscibile per l’usanza di infilare sotto il mento un pezzetto di legno come piercing, la foto – questa non di Salgado, evidentemente – di un giovane che porta il padre sulle spalle attraversando la foresta a piedi per ore e ore nel tentativo di raggiungere il punto dove si effettua la vaccinazione anti-Covid-19. E’ diventata virale in un attimo. Segno del fascino che esercita ai ‘lontani’. Una sorta di Anchise ed Enea contemporanei che dice di caparbietà, ostinazione, coraggio, solidità dei rapporti familiari. Un tuttuno con gli animali e le piante, i riflessi della vegetazione sull’acqua, i riflessi sulle pitture corporali per le feste, o per allontanare la pigrizia.

“L’Amazzonia deve continuare a vivere”

I sogni espressi da Papa Francesco in Querida Amazonia per una terra che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità promossa, e che difenda la ricchezza culturale che la distingue, e che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, sono riscontrabili tutti qua. “Vogliamo che questa terra non venga distrutta”, testimoniano i leader delle comunità indigene incontrate da Salgado nei video allestiti lungo il percorso. Nella prefazione del catalogo Salgado scrive: “Per me, è l’ultima frontiera, un misterioso universo a sé stante, dove l’immenso potere della natura può essere sentito come in nessun altro posto sulla terra. Qui c’è una foresta che si estende all’infinito che contiene un decimo di tutte le specie di piante e animali viventi, il più grande laboratorio naturale del mondo”. “Il mio desiderio, con tutto il mio cuore, con tutta la mia energia, con tutta la passione che possiedo – auspica Salgado – è che tra 50 anni questo libro non assomigli ad una registrazione di un mondo perduto. L’Amazzonia deve continuare a vivere”.