Giancarlo La Vella – Città del Vaticano
In un clima di forte tensione la Somalia prova ad uscire dalla crisi, che la attanaglia da oltre tre decenni, a cominciare dalle elezioni presidenziali. Quasi 40 i candidati per queste consultazioni a lungo rinviate e che si svolgono tra imponenti misure di sicurezza in un hangar superblindato dell’aeroporto internazionale di Mogadiscio. Dopo la sanguinosa guerra civile, che ha distrutto l’identità istituzionale della Somalia, dal 1991, il Paese del Corno d’Africa cerca di rimettere in piedi i suoi organismi, a cominciare dal capo dello Stato.
Un ruolo impegnativo
Secondo Enrico Casale, della rivista Africa dei Padri Bianchi, tre sono le sfide urgenti che il nuovo presidente somalo dovrà affrontare: rimettere in piedi le istituzioni politiche praticamente annientate dal conflitto civile del secolo scorso, riuscire ad avere la meglio sul terrorismo dei militanti di al Shabaab, legati ad al-Qaeda, che controllano ampie zone periferiche, e risolvere la crisi umanitaria che la siccità sta aggravando sempre di più.
Enrico Casale, quali sfide oggi deve affrontare il presidente della Somalia?
Le sfide del Paese del Corno d’Africa sono decisive e sono tre. La prima è consolidare le istituzioni politiche somale, che, fino a questo momento, sono state molto fragili per diverse cause legate all’instabilità politica generale ed instabilità legata alla sicurezza collegata in particolare al fenomeno del terrorismo. E proprio questa è la seconda sfida: il terrorismo, perché in Somalia è ancora fortissima la presenza della milizia Al- Sahabab, che fa in qualche modo parte del network di Al-qaida e controlla ancora ampie aree dell’entroterra somalo. La terza sfida, a mio parere, è quella della crisi umanitaria. Dopo mesi e mesi di mancanza di precipitazioni atmosferiche, la Somalia è in ginocchio. Migliaia e migliaia di persone rischiano la carestia e la morte per fame.
E’ importante che si sia comunque giunti a organizzare queste consultazioni? Quali i motivi di questo ritardo?
Il ritardo è legato ad un processo elettorale molto lento, che prima ha impedito che venisse eletto il parlamento nei tempi giusti, nei tempi corretti, e di conseguenza le elezioni del presidente. Il capo dello Stato in Somalia, ricordiamolo, è eletto, come in Italia, dal parlamento. Quindi se non esiste il parlamento non può essere eletto il presidente della Repubblica. Le elezioni dovevano esserci a febbraio del 2021, poi il voto è stato rimandato. Negli ultimi mesi il processo elettorale di camera e senato ha subito un’accelerazione e alla fine si è riusciti ad arrivare alla nomina dei senatori e dei deputati che hanno giurato e poi fissato lo scrutino per l’elezione del presidente al 15 maggio, data della prima votazione. Il presidente della Repubblica, per essere eletto, dovrà ottenere i due terzi dei consensi del parlamento in seduta comune.
A causa delle conseguenze della guerra civile che ci fu negli anni ’90, fino a poco tempo fa abbiamo sempre considerato la Somalia un Paese senza Stato. Si comincia a vedere un barlume di ripresa in questo Paese?
Sì, le istituzioni iniziano piano piano a prendere forma, grazie anche al sostegno della comunità internazionale: l’Unione Africana, l’Unione Europea, le Nazioni Unite e anche diversi Paesi, tra i quali l’Italia, che, ricordiamo, è stato Paese colonizzatore, e ha sempre avuto un ruolo molto importante, riconosciuto per certi versi dagli stessi somali. Quindi le istituzioni iniziano a prendere forma, ma sono ancora molto fragili e soprattutto la situazione della sicurezza è ancora molto precaria. Come dicevo prima, gli Al Sahabab sono ancora molto forti in Somalia e, pur avendo perso il controllo delle città costiere, continuano ad organizzare attentati nella capitale, nelle principali città e addirittura nei Paesi confinanti come il Kenya. Quindi le istituzioni vanno ancora supportate, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista militare, passatemi il termine, nel senso che vanno difese, protette da questa minaccia fortissima del terrorismo di Al Sahabab.
La situazione di tensione che c’è negli altri Paesi del Corno d’Africa, e anche oltre, influisce in qualche modo sulla Somalia?
Direi che la Somalia ha problemi suoi particolari e quindi già questi sono problemi molto seri, molto forti. E’ chiaro che tutta l’area è in fibrillazione: pensiamo all’Etiopia alle prese con la guerra del Tigrai, pensiamo al Sud Sudan, che, pur avendo conquistato l’indipendenza, non è mai riuscito ad essere stabile, pensiamo anche ai problemi della Repubblica Democratica del Congo, dell’Uganda, del Ruanda e del Burundi. Ecco, è una regione instabile in generale, quindi c’è tutto un collegamento di problemi che si intersecano tra i vari Paesi. A proposito della guerra nel Tigrai, ad esempio, si dice siano stati impiegati a fianco di Etiopia ed Eritrea dei soldati somali inviati dal governo di Mogadiscio, anche se questo non è mai stato provato, ma le famiglie di questi soldati hanno spesso denunciato questo utilizzo e molte morti di giovani soldati somali nel Tigrai contro le milizie del Fronte Popolare di liberazione di quella regione. Di conseguenza già questo ci fa capire come ci siano particolari tensioni, in più, pensiamo a un altro esempio importante di cui si parla poco, che è quello del Somaliland, la regione nord della Somalia che nel 1991 si è dichiarata indipendente e sta facendo una propria attività con proprie istituzioni, un proprio esercito e una propria politica estera, con particolari rapporti con alcuni Stati stranieri. Ecco anche questo è un problema di carattere internazionale che la Somalia dovrà affrontare e possibilmente risolvere.