Al Meeting di Rimini, colloquio con Giovanna Parravicini, tra i curatori della mostra dedicata all’hospice pediatrico a Mosca, una struttura dove la cura dei fragili è un valore assoluto
di Silvia Guidi – Rimini
Una Russia sconosciuta, «che non si lascia catturare da sguardi frettolosi e superficiali, che non compare sulle pagine dei giornali». Un mondo invisibile ma reale, popolato da persone che continuano a battersi con tenacia per salvaguardare la persona, proprio quando il suo valore sembra più effimero e fragile. Questo, in sintesi, è ciò che la mostra “Un mondo in cui ciascuno è importante” vuole testimoniare, spiega Giovanna Parravicini, facendo incontrare ai visitatori del Meeting «persone che danno quotidianamente la vita per affermare la vita. Non per dovere, non per convinzioni ideali, ma, come dice Dima Jastrebov, capo del servizio babysitter dell’hospice pediatrico Casa del faro: “L’amore che posso condividere non mi appartiene, non esiste in me: a un certo punto ti apri a questo amore e dai qualcosa che non ti appartiene e ricevi altrettanto in cambio”». Non una mostra di carattere sociologico, quindi, e neppure medico-assistenziale, ma incentrata sulla sacralità di ogni vita, spiega Parravicini, ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana, specialista di storia della Chiesa in Russia nel ventesimo secolo e di storia dell’arte bizantina e russa, consigliere dell’Ordine di Malta e consultore del Dicastero per la Cultura.
Come è nata l’idea della mostra?
Due anni fa la Fondazione Russia Cristiana aveva curato per il Meeting, insieme all’Associazione Memorial, una mostra sul valore dei legami familiari in epoca sovietica, mostrando come avevano saputo sfidare il Grande Terrore e il GULag. La mostra che abbiamo curato quest’anno vuol fare luce su un altro aspetto della resistenza della società civile, che negli anni ha via via assunto contorni sempre più vasti: la cura delle fragilità, che nasce dal riconoscimento che la vita — ogni vita, per tutto il tempo in cui vive — è degna di stima, di cura e di amore. Uno degli assiomi dell’Unione Sovietica era la funzionalità dell’individuo al sistema: malati, disabili, invalidi erano separati dalle famiglie (si faceva pressione sui genitori di neonati “difettosi” perché li abbandonassero alla nascita), segregati dalla società, reclusi a vita in appositi istituti statali. Dopo la caduta dell’Urss questa mentalità fatica a dissolversi, ma negli ultimi trent’anni si è fatto strada un movimento di volontariato che — a volte con motivazioni esplicitamente cristiane, ma molto spesso anche semplicemente umanitarie — ha rimesso al centro la responsabilità e la libertà della persona. Gli hospice in Russia non sono nati per una pianificazione dall’alto, ma come la risposta a un bisogno incontrato, anzi come l’esito di un incontro umano. Proprio così si spiega uno degli aspetti che sicuramente ci hanno colpito e spinto a pensare alla mostra: l’esperienza della bellezza, che abbiamo voluto fissare soprattutto nella prima sezione. Una bellezza che si rintraccia in mille particolari della vita dell’hospice, ma che, in particolare, il fotografo Efim Erichmann ha scorto nei piccoli pazienti, e che ha insegnato a vedere anche ai loro genitori, cogliendo sguardi, riflessi di luce, abbracci. La misteriosa bellezza di ogni vita umana.
Mi ha colpito molto una frase di Njuta Federmesser: «Negli hospice esiste solo il presente».
Njuta, che oggi coordina la vasta rete di hospice della Fondazione Vera sorta in varie regioni della Russia, non si stanca di ripeterlo. È il nucleo centrale del suo credo. In effetti molte famiglie, dopo l’esperienza di una malattia e di una morte accompagnate dal personale dell’hospice, ricordano questo periodo come drammatico e doloroso, ma anche come uno dei più intensi e veri della propria vita. E più di un familiare dei pazienti dell’hospice, in seguito, vi ha fatto ritorno come volontario. Non siamo semplicemente di fronte a un’eccellenza assistenziale (anche se ci si batte per ottenere dallo Stato leggi e risorse necessarie a realizzarla): chi lavora nell’hospice ha ben chiaro che è necessario «coinvolgimento, sostegno umano, calore, attenzione, un ambiente accogliente, cosa che la macchina burocratica non sarà mai in grado di fornire» (Julija Matveeva, presidente della Fondazione Vera). Il presente di cui parla Njuta è fatto di tante cose: di concretezza nell’alleviare il dolore del paziente, nell’esaudire i desideri che ha dentro, nel lasciargli accanto il più possibile i familiari; ma anche del coraggio di non eludere le domande del malato, di ascoltare i suoi drammi e le sue paure, e di aiutarlo a guardare in faccia con speranza la sua diagnosi, il destino che lo attende. Frederika de Graaf, che da vent’anni accompagna i pazienti del primo hospice moscovita, parla spesso dell’importanza di «esserci», semplicemente, del valore di un silenzio che custodisca la presenza di Cristo, perché possa agire con il malato e i suoi cari, e della preziosità di un dialogo da cuore a cuore, in cui — magari dopo anni — i familiari abbiano il coraggio di dirsi l’essenziale, mettendo da parte rispetto umano e falsi pudori. È un’esperienza ricorrente, nelle storie dei pazienti che raccontiamo in mostra, il valore che assume ogni istante di vita quando si trasforma in una ricerca di ciò che è essenziale, affacciandosi sulla soglia dell’eternità: come la mamma che, sapendo di dover morire, scrive per i propri figli delle lettere che li accompagnino nei momenti più importanti della vita. L’intensità di questo “presente” nasce dalla consapevolezza del seme di eternità che ogni istante racchiude.