Antonella Palermo – Città del Vaticano
La guerra non risolve niente. E’ laconico e amaro il messaggio che arriva da un Paese che la guerra l’ha conosciuta e ancora ne riporta le tracce, visibili e meno visibili. Quando in apparenza non si percepiscono, possono essere ancora più gravi, in realtà, perché annidate nell’intimo di uomini, donne e bambini che devono fare i conti con i traumi della violazione a tutto campo. Eppure, la Pasqua invita a guardare al Cristo morto e risorto e fortifica le speranze anche più incerte.
Qaraqosh, folla di fedeli per l’apertura della Settimana Santa
La linea è molto instabile – “anche qui si misura la nostra realtà”, ammette il religioso – ma Padre Joseph Cassar SJ, presidente del Jesuit Refugee Service (JRS) in Iraq, riesce con pazienza ed estrema cordialità a rendere l’idea dell’impegno della Compagnia di Gesù verso chi deve ricostruire e ricostruirsi dopo anni di perdurante esodo.
Il gesuita racconta di essere ancora impressionato dalla folla che ha partecipato alla celebrazione della Domenica delle Palme nella cittadina di Qaraqosh. Proprio là, dove Papa Francesco si recò il 7 marzo dell’anno scorso, e dove rilanciò l’appello a considerare che “l’ultima parola appartiene a Dio e al suo figlio vincitore del peccato e della morte”, è tornato in questi giorni un fermento, un brulicare di persone assetate di pace. “Tutte le strade – sottolinea Cassar – erano congestionate dalle migliaia di persone” che hanno voluto di nuovo ritrovarsi, dopo le restrizioni per la pandemia e dopo anni in cui si erano dovute forzatamente allontanare per ragioni di sicurezza. Un tripudio vero e anche in parte insospettato. “Ho pensato che sia stata una specie di anticipazione della Pasqua”, aggiunge. “La Pasqua ci ricorda e, malgrado tutte le difficoltà che si vivono, c’è sempre speranza”, precisa ancora citando quel pellegrino di pace che percorse quelle vie: Francesco. “Ci insegna che l’ultima parola non appartiene alla morte, ma appartiene alla vita. La Pasqua è fonte di speranza e vita nuova grazie alla Resurrezione del Signore. Ci spinge a impegnarci sempre di più a incoraggiare chi è sul punto di perdere ogni speranza. Ci rinnova lo slancio nonostante i problemi”.
Il dramma degli sfollati
Spesso la speranza è messa a dura prova, si deduce dai racconti di padre Cassar che parla dalle zone al nord dove vivono in modo assai precario i rifugiati, soprattutto siriani. “E’ una tragedia che dura dal 2011”, ricorda, e descrive l’impegno del JRS: “Ci impegniamo molto in particolare con la minoranza yazida, sfollata per le atrocità perpetrate dal sedicente Stato Islamico (IS) nella regione del Sinjar”; qui uomini e anziani vennero trucidati in massa, mentre donne e bambine diventarono schiave sessuali dei miliziani ed i minori furono arruolati come bambini soldati. Padre Cassar si trova in mezzo alle tende dove queste persone sono accampate da otto anni, anche fuori dai campi, in alloggi improvvisati. “C’è tutto il punto interrogativo che riguarda il loro eventuale ritorno nei luoghi di origine, per esempio a Mosul. Si tratta di 250 mila persone. I rifugiati siriani sono altri 250 mila. In Iraq in tutto gli sfollati sono un milione e 200 mila. Poi ci sono quelli che sono potuti tornare nella piana di Ninive”.
2700 yazidi finiti nel nulla
Ci si chiede da dove può giungere una soluzione dignitosa: “Le soluzioni durature sono qualcosa che tutti desiderano, ma nessuno di fatto sa come offrirle”, dichiara Cassar, che torna a sottolineare l’instabilità che mina la sopravvivenza generale nel Paese. “E’ difficile”, lamenta. Illustra il servizio di accompagnare, servire e operare nell’advocacy, che contrassegna l’impegno del JRS. Soprattutto, mostra di avere a cuore la sorte di ben 2700 persone yazide che risultano ancora scomparse. “Si sa che sono vive, ma non si sa chi sta togliendo loro la libertà. E’ ovvio che questo non sapere procura danni enormi a livello psicologico in chi resta. Facciamo per questo tantissime visite alle famiglie, ricordando loro che non sono sole. E’ di fatto un esilio, anche se ci si trova nello stesso Paese. Facciamo capire che contano come persone. Questo è il punto cardine della nostra attività”. Poi c’è la distribuzione dei viveri e dei beni di prima necessità: “Con l’attuale aumento del prezzo degli alimenti dobbiamo continuare a fare anche questo. Poi forniamo assistenza finanziaria e legale.
Nell’ambito dell’educazione ci impegniamo molto non a sostituirci alle scuole pubbliche, ma a educare i bambini a superare le difficoltà causate dal Covid, dallo sfollamento, dalle infrastrutture molto carenti. Mancano le cose basiche, come sedie, scrivanie, libri”, spiega ancora il gesuita. Si organizzano corsi di recupero per i ragazzi al fine di dare loro un futuro dignitoso. Si aiutano i genitori a pagare i trasporti. Spicca l’assistenza specializzata a livello di salute mentale: “I traumi sono enormi – dice – ci sono molte persone lacerate dal di dentro. Molte volte vediamo i danni agli edifici, ma non vediamo ciò che sta accadendo dentro, qualcosa di molto intimo nelle persone. A me ricordano le piaghe di Cristo”.
“La guerra non è mai la soluzione”
Come si guarda alla guerra in Ucraina dall’Iraq, in questo tempo di avvicinamento alla Pasqua? Cassar osserva che ogni volta si ricade in situazioni di guerra. “In tanti fomentano le guerre, e allora occorrono altrettante, anzi più persone, non solo di buona volontà, ma anche di buona azione, che si impegnino molto di più a difendere e costruire la pace”, conclude. E scandisce l’aspetto cruciale della necessità di coinvolgere i leader politici e la popolazione, “senza cercare interessi limitati nel tempo o legati a una particolare amministrazione oppure interessi di un Paese o di un gruppo particolare. Dobbiamo tutti insieme costruire un’umanità che non sia in guerra, perché – denuncia – la guerra non è mai la soluzione”.