di Francesco Ricupero
“La fratellanza e la diversità sono la base umana e morale fondamentale per la convivenza”: ne è convinto il cardinale Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei, che in questa intervista a “L’Osservatore Romano” ricorda con gioia e gratitudine il viaggio di Papa Francesco in Iraq.
È trascorso appena un mese dalla visita apostolica, compiuta in un momento storico particolare contrassegnato dall’emergenza sanitaria. Un gesto quasi inaspettato. Cosa ha significato per lei e per i cristiani iracheni la presenza del Pontefice?
Sapevo che il Santo Padre voleva visitare l’Iraq, ma sinceramente non me lo aspettavo proprio in questo momento particolare, data la situazione incerta provocata dalla pandemia. È stata una sorpresa la sua determinazione. Il Santo Padre ha il carisma di sorprendere. Penso che lui abbia sentito nel suo cuore di pastore l’esigenza di venire a portare conforto e speranza agli iracheni che hanno tanto sofferto. Dunque, ha fatto bene. Che gioia la sua visita! Il Papa ha colpito tutti: cristiani e musulmani. L’Iraq, durante la sua permanenza, è stato un piccolo paradiso, dopo tanto inferno, e speriamo che sarà sempre così!
Lei in diverse occasioni ha rimarcato la necessità di uno Stato laico che permetta la libertà di culto. Pensa che in Iraq ciò sia realizzabile? E quanto tempo ancora bisognerà aspettare?
Ritengo che un regime secolare, basato unicamente sulla cittadinanza e non sulla religione, sia la soluzione. I Paesi del Medio oriente non avranno futuro senza la separazione tra religione e Stato. Sono due cose diverse. In uno Stato secolare, puoi essere musulmano o cristiano, puoi andare in moschea o in chiesa, digiunare e gestire la tua vita secondo le tue convinzioni, e lo Stato non ha il diritto di impedirti di farlo… né può costringerti a farlo. Così come non può impedirti o importi di diventare religioso. Non ti verrà tagliata la mano se rubi e non andrai in prigione se interrompi il digiuno durante il Ramadan. Lo Stato non ti punirà se scegli questa o quell’altra religione. L’Iraq è pronto per essere secolare e i giovani manifestano rivendicando patria e uguaglianza. Il settarismo in Iraq è stato creato apposta dopo la caduta dell’antico regime.
Cosa sta facendo la Chiesa caldea per convincere i cristiani a rientrare in patria dopo la persecuzione da parte del cosiddetto Stato islamico?
Il ritorno dei cristiani è dovere del governo iracheno e ciò sarà possibile quando le condizioni saranno favorevoli e saranno garantiti sicurezza, stabilità e servizi. I cristiani e altre minoranze saranno incoraggiati a tornare nella loro terra di origine. A mio parere questo è un progetto a lungo termine.
In un recente messaggio lei ha invitato gli iracheni a voltare pagina e ad avviare un nuovo percorso. Crede che la visita del Papa possa contribuire a un cambiamento nel Paese?
Deve cambiare una certa mentalità tribale intrisa di vendetta e di giustizia. Colui che perdona è più forte di chi si vendica. Bisogna perdonare e riconciliare per il bene comune, come ha fatto Nelson Mandela in Sud Africa. Una nuova cultura aperta, che rispetta le diversità, è necessaria per compiere progressi. Il Papa ha parlato della fraternità umana e anche spirituale, occorre rispettare la diversità e collaborare per un mondo migliore, con più pace e dignità.
Cosa serve per facilitare un’armoniosa convivenza fra le fedi? Lei è convinto che musulmani e cristiani possano convivere nonostante le ferite inferte dai fondamentalisti?
Noi cristiani abbiamo una vocazione: dobbiamo aiutare gli altri ad aprirsi, dobbiamo essere pronti, coraggiosi e non avere paura. Come pastore ripeto che la Chiesa ha il dovere di esplicitare la fede in modo chiaro. Ci vuole dialogo e rispetto. Unità non significa uniformità. Il Papa in Iraq ha più volte parlato di fratellanza e diversità. Le sue parole scaturite dalla fede e dal suo cuore con semplicità e spontaneità hanno cambiato la mentalità della gente. Adesso c’è grande rispetto, ma anche i leader politici dovrebbero cambiare.
Quanto può essere determinante il sostegno dei cattolici e della comunità internazionale per instaurare un clima di pace e serenità?
Papa Francesco ha tracciato una magna carta durante i suoi incontri e con le sue parole, e adesso tocca a noi metterla in pratica. Il governo iracheno ha costituito un comitato subito dopo la visita apostolica, così anche la Chiesa caldea. Abbiamo fiducia e speranza.
Come è possibile rafforzare la fratellanza in un Paese martoriato da scontri armati e violenze?
Noi cristiani formati con il perdono abbiamo un ruolo capitale: perdonare, appunto. Riconciliarsi e costruire la fiducia sono temi essenziali per una convivenza politica. La gente semplice è pronta a cambiare, ma ripeto che il grande ostacolo sono i politici che cercano di curare i loro interessi, come ha ribadito anche l’ayatollah Al-Sistani durante l’incontro con Francesco.
Cosa farà di concreto la Chiesa in Iraq nel prossimo futuro?
Lavoreremo su quattro obiettivi: costruire programmi educativi e didattici in modo da rafforzare la fratellanza tra gli iracheni e la loro unità nazionale; organizzare eventi di sensibilizzazione per gli iracheni sulla loro diversità attraverso seminari, conferenze e programmi televisivi dedicati a civiltà, culture e religioni, al fine di mostrare i punti in comune, approfondendoli e rispettandone le particolarità, perché ciò che ci unisce è molto di più di ciò che ci divide; creare un centro nazionale che comprenda aule e una biblioteca specializzata sui temi del dialogo interreligioso; infine, attivare il codice penale iracheno (n. 111 del 1969) e i suoi articoli che obbligano a proteggere i luoghi santi e prevenire l’offesa alle religioni e ai loro simboli punendone gli aggressori.