Roma – Chiesa Sacro Cuore del Suffragio – 21 settembre 2020
Messa in occasione dei 30 anni
della morte di Rosario Livatino
(S. Matteo apostolo ed evangelista – Ef 4,1-7.11-13; Sal 18; Mt 9,9-13)
La liturgia di questa mattina ci propone la figura di san Matteo, che prima di essere apostolo ed evangelista fu un semplice esattore delle tasse per conto dei romani. Mestiere non facile, che esponeva al rischio del peculato e della corruzione, senza parlare dell’inevitabile connivenza con gli occupanti; e perciò inviso alla popolazione. Tant’è vero che Gesù deve difendersi dall’essere entrato in contatto con lui e con altre persone poco raccomandabili, spiegando di essere venuto per i peccatori, per coloro che sbagliano, e non per i sani, i perfetti.
La scena è nota anche grazie a Caravaggio, che proprio qui a Roma, in San Luigi dei Francesi, ne ha dato una raffigurazione che da oltre quattro secoli stupisce e commuove. La conversione di Matteo – la sua chiamata dal peccato alla salvezza, dal banco delle imposte alla sequela di Cristo – è rappresentata essenzialmente mediante un taglio di luce che promana da Gesù e illumina la zona del dipinto dove sta appunto Matteo. Non c’è tenebra che la luce divina non possa sondare, non c’è animo turpe che non possa essere volto al bene. Colpiscono poi la mano del Maestro indirizzata verso l’esattore delle tasse e l’espressione di sorpresa dell’uomo chiamato per nome. Chissà se lo stupore immaginato dall’artista fosse dovuto al fatto che un maestro ormai noto si era accorto proprio di lui, Matteo il pubblicano, fino a volerlo tra i suoi discepoli, perché Cristo è davvero il medico che sa riconoscere lo stato di malattia anche in persone esteriormente a posto. Oppure se quello stupore riguardasse il fatto che la vocazione non raggiungeva Matteo mentre era intento a visitare un luogo di culto, a leggere le Scritture o a intonare preghiere: stava semplicemente svolgendo il proprio lavoro, addirittura un lavoro che metteva alla prova la coscienza e che si attirava le antipatie della gente.
Rosario Livatino, di cui oggi ricordiamo il trentesimo anniversario della morte, al momento di entrare in magistratura aveva chiara coscienza della missione che si assumeva. Egli stesso lo afferma il 18 luglio del 1978: «Ho prestato giuramento – annota sulla sua agenda -; da oggi quindi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». Le idee erano chiare fin dal principio, dunque. Eppure possiamo ritenere che anche per lui, nella decina d’anni di esercizio della professione, la determinazione nel seguire quella che si stava sempre più prospettando come una specifica chiamata si sia fatta sempre più netta. Forse anche al giudice Livatino la via che l’avrebbe portato ad assumersi fino in fondo – fino al sacrificio estremo – le proprie responsabilità si trovò confermata a poco a poco, mentre svolgeva il suo lavoro, mentre non ricusava gli incarichi più esposti, mentre assisteva alla morte violenta di altri giudici stimati, mentre conosceva ogni giorno di più il tessuto profondo e talvolta malato di territori che a uno sguardo meno attento di quello di un magistrato o di un operatore di polizia possono sembrare tranquilli e laboriosi.
Per lui tutto questo era questione di vita o di morte, ma prima ancora di vita vera e di fede limpida. Livatino riuscì a ritrovare una sintesi tra religione e diritto che non appare scontata, come dimostra una sua conferenza: «Cristo – egli affermò – non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano» (Conferenza tenuta a Canicattì il 30 aprile 1986, in Fede e diritto, a cura della Postulazione). In altre parole, non c’è piena giustizia senza amore. Come ha affermato papa Francesco: «In questo modo, con queste convinzioni, Rosario Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge» (Discorso ai membri del Centro studi “Rosario Livatino”, 29 novembre 2019).
Immagino che a Livatino, lettore attento del Nuovo Testamento, fossero note le espressioni di san Paolo che abbiamo ascoltato come prima lettura: «Vi esorto, comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità» (Ef 4,1-2). Dove la prima parte della frase rimanda alla coerenza, alla fedeltà, alla dedizione, che nel caso del magistrato al Tribunale di Agrigento fu realizzata fino al sacrificio della vita. La seconda parte dell’affermazione paolina configura invece lo stile con cui vivere la dedizione al servizio che si è assunto, ovvero senza impancarsi a superuomini, senza ostentare una saldezza che non si possiede, senza inutili asprezze; in definitiva con semplicità e umanità.
Chi ha studiato i diari di Rosario Livatino – giudice, ma prima ancora uomo e credente – attesta di incertezze, di sfoghi spontanei, di lacerazioni interiori e di silenzi. Il che non ne fa un testimone meno prezioso per chi ebbe la fortuna di conoscerlo di persona o per chi ne ha solo sentito parlare. No: questi tratti di penna, queste semplici confidenze, ce lo rendono ancora più umano, vero, vicino. Perché come dai peccatori possono originarsi – per grazia di Dio – i santi, così i coraggiosi nascono non dai temerari ma dai timorosi e i forti sorgono non dai presuntuosi bensì dai deboli che accolgono la propria debolezza e si lasciano mutare dal confronto con le situazioni, le persone e i valori.
Un tempo si dichiarava beato un popolo che non avesse avuto bisogno di eroi (cfr B. Brecht). E così pure di santi, di figure esemplari, di testimoni. Permettetemi di obiettare che abbiamo bisogno di tanti piccoli e grandi eroi del quotidiano, che si sentano chiamati mentre attendono al loro lavoro, che sappiano comportarsi in fedeltà alla missione ricevuta, che donino umilmente la vita giorno per giorno là dove si trovano a vivere e a operare, che abbiano il coraggio della fedeltà nonostante i limiti e le umane debolezze, che onorino il proprio mandato – qualunque esso sia – con estrema dignità.
Davvero beato un popolo, un paese che ha uomini e donne così. Beate le istituzioni che sono presidiate da figure simili. Beati quei malcapitati, quei poveri, quei soggetti meno fortunati che ricorrono a una giustizia amministrata da persone simili.
L’intercessione dell’apostolo ed evangelista san Matteo, peccatore perdonato, e la testimonianza luminosa di Rosario Livatino, credente e magistrato, siano di sprone al nostro cammino.
E così sia.
Gualtiero Card. Bassetti
Presidente della CEI