Alla Gregoriana l’allenatore della Roma José Mourinho dialoga con il cardinale José Tolentino de Mendonça
di Giampaolo Mattei
«Papa Francesco? Uno di noi! Quando sono stato un professore “eccezionale”? Con i bambini con sindrome di Down, quello che avevo da dare era amore e l’ho dato». L’allenatore della Roma, José Mourinho, ha raccontato di sé nel dialogo intrecciato con il cardinale José Tolentino de Mendonça venerdì sera, 31 marzo, alla Pontificia Università Gregoriana. Su iniziativa del centro “Alberto Hurtado” e dell’ambasciata di Portogallo presso la Santa Sede. Rilanciando l’incontro promosso, un anno fa, da «L’Osservatore Romano», tanto che a moderare il dialogo è stato il direttore Andrea Monda. Tra i presenti, il ministro italiano dello Sport, Andrea Abodi.
A dare “il via” è stato il cardinale prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione — protagonista dei “dialoghi sportivi”, promossi con Athletica Vaticana e il Dicastero per la comunicazione, iniziati lo scorso 15 marzo con Filippo Tortu — con una riflessione sullo «sport come scuola per costruire la vita», prendendo spunto proprio dal contesto della Gregoriana.
«Il segreto dell’educazione è amare ed educare è un esercizio di speranza» ha detto il cardinale, suscitando in Mourinho un ricordo: «Dopo l’università sono andato in una scuola di bambini con sindrome di Down e non avevo né esperienza né formazione. Avevo paura. Sentivo la responsabilità di essere un ragazzo di 23 anni senza le capacità giuste. Alla fine di quei due anni, quando sono andato via, bambini, colleghi e genitori erano molto tristi: mi hanno detto che ero stato un professore “eccezionale”. Perché l’unica cosa che avevo da dare era l’amore e l’ho dato. È stato l’amore a farmi diventare “eccezionale” e a fare qualcosa di fantastico per la loro formazione. Ho creato un rapporto con quei bambini che ancora oggi vedo in Portogallo».
Particolarmente intenso il dialogo su Papa Francesco. Il cardinale ha confidato di essere impressionato dal «modo di pensare, per immagini», del Pontefice, dalla sua «capacità di vicinanza» e del suo invitare ad andare «avanti!». Da parte sua Mourinho ha fatto ricorso al gergo calcistico: «Papa Francesco? Uno di noi! Parla in modo che tutti capiscano e il messaggio passa sempre».
Sollecitato dalle riflessioni del cardinale sul valore dell’esperienza sportiva — per la Santa Sede proposta da Athletica Vaticana — Mourinho ha raccontato di una «industria» che non lascia più scampo al «calcio di base»: «Il mio sport purtroppo è un mondo diverso dallo sport che noi vogliamo per i nostri bambini. Lo sport di alto rendimento è crudele. Non c’è spazio per i più deboli. L’obiettivo è molto chiaro per noi professionisti: vincere. Anche per i proprietari e la gente che controlla l’aspetto economico gli obiettivi sono molto chiari».
Per Mourinho «lo sport di cui hanno bisogno i bambini è un altro, ma non c’è più. Soprattutto i genitori hanno bisogno di capirlo perché spesso sono proprio loro, con le loro ambizioni e frustrazioni, a portare i ragazzi alla crudeltà. Ci sono genitori che dicono ai ragazzi di non passare la palla a un compagno perché altrimenti segna più gol di lui. È crudeltà». Con nostalgia l’allenatore ha ricordato l’amicizia con i ragazzi che allenava oltre 40 anni fa e che ancora oggi sono vicini e si aiutano l’un l’altro: uno di loro è il suo assistente. Con quel modello di calcio «si imparava più che a casa: empatia, solidarietà, ricerca della gioia di vincere, sapere che la sconfitta non è l’inizio ma la fine di un periodo difficile».
Il cardinale e l’allenatore, entrambi portoghesi, hanno fatto riferimento al pensiero del filosofo Manuel Sérgio, loro connazionale. «Ci insegna a trovare il senso nello sport» ha riconosciuto il porporato. «Mi ha detto: “Non sei un allenatore di calciatori, ma un allenatore di ragazzi che giocano a calcio”» ha rilanciato Mourinho.
La realtà dei giovani — il cardinale ha presentato l’essenza della Giornata mondiale della gioventù di Lisbona — vista in un rapporto intergenerazionale, il «senso del fallimento» e la «fragilità» sono stati i temi affrontanti nella seconda parte del dialogo. Con l’accento posto su un «nuovo umanesimo per lo sport». «Ma cosa è il fallimento» ha concluso Mourinho. «Nel mio caso è perdere una partita? Il vero fallimento è avere le capacità innate e non riuscire a svilupparle, per poi arrivare a dire “potevo, ma non ci sono riuscito”. Chi ha il coraggio di fare, di sfidare non vive mai un fallimento».