Nella Cattedrale Metropolitana della città dell’Andalusia, nel sud della Spagna, la Messa di beatificazione di Maria de la Concepción (Conchita) Barrecheguren presieduta dal cardinale Marcello Semeraro. “Marìa Conchìta ha dato frutto abbondante – ha detto nell’omelia il prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi – perché è sempre stata unita a Cristo, anche nelle ore buie della prova”, illuminando tutto con la sapienza della Croce
Adriana Masotti – Città del Vaticano
La presenza di Dio nella fragilità umana: nel brano tratto dalla seconda Lettera ai Corinzi, prima lettura della Messa con rito di beatificazione di Maria de la Concepción (Conchita) Barrecheguren, celebrata nella Cattedrale di Granada, l’apostolo Paolo paragona i cristiani a un vaso di creta, ma – afferma nella sua omelia il cardinale Marcello Semeraro – in questo vaso di creta, che siamo noi, c’è un tesoro inestimabile ed è Cristo”. Il prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi parte da qui per presentare la nuova beata e la sua breve ma intensa vita cristiana, chiara dimostrazione di questo “paradosso”. “La sua vita terrena fu breve – appena ventidue anni – e, per di più, molto presto segnata dalla sofferenza e dalla malattia – afferma Semeraro -. Davvero un vaso di creta! In lei, però, si è realizzato quello che scrive l’Apostolo: ‘tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati… portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo’”.
Con Cristo anche nelle ore più buie dell’esistenza
Il porporato ripercorre quindi la vita di Maria Conchita nata a Granada il 27 novembre 1905 da una coppia a cui non mancavano i beni materiali, ma soprattutto quelli spirituali tanto che il padre, Francisco, rimasto vedovo si fa religioso redentorista e ora è venerabile. “L’educazione religiosa ricevuta dai genitori – prosegue il cardinale – dispose Conchita ad accettare con serenità e gioia i molti disagi provocati da una salute sempre più gravemente compromessa”. A sostenerla nella fatica, la frequenza ai Sacramenti e in particolare la comunione quotidiana e la devozione alla Vergine Maria. Sperimentò così che chi rimane in Gesù porta molto frutto. “Maria Conchita – afferma il prefetto – ha dato frutto abbondante perché è sempre stata unita a Cristo e mai si è distaccata da lui, anche nelle ore buie della prova. Dovette, difatti, affrontare avversità umanamente superiori alle sue deboli forze, come la malattia mentale della madre, le sue proprie sofferenze fisiche e, nell’ultima fase dell’esistenza terrena, quelle provocate dalla tubercolosi”.
Una vulnerabilità accettata e vissuta nella solidarietà
Quella di Maria Conchita era una condizione di fragilità riconosciuta e accettata. Non è facile accettare di essere vulnerabili, osserva Semeraro, ma la vulnerabilità fa parte della dimensione umana e, in quanto tale, è “una dimensione che ci interpella” e sollecita risposte “nella forma della solidarietà”. Il cristiano conosce infatti “il Dio che si è fatto carne” per cui la debolezza umana diventa luogo dell’amore e della fraternità. La debolezza, fa notare, può diventare anche elemento di un’etica condivisa con i non credenti, base quindi “per un’armonica convivenza sociale”.
L’affidamento totale e fiducioso a Dio
“Il mio amore sarà un Dio crocifisso, il mio cibo la preghiera, la mia fortezza l’Eucaristia”, scriveva Maria Cochita che, afferma il cardinale Semeraro, oggi “diventa per tutti noi modello da imitare” di cui rendere grazie al Signore e conclude: “Soprattutto a chi è nella sofferenza e nella prova, la beata Maria Conchita, con l’offerta della sua giovane, breve esistenza e con l’affidamento totale e fiducioso in Dio, mostra come la conformazione a Cristo, nell’amore crocifisso, trasforma la sostanza della vita, anche la più complessa e difficile”.