Vienna, Cuba, Belfast, Beagle, Mozambico: quando hanno prevalso le «oneste trattative» e il «coraggio di fare un passo indietro»
di Guglielmo Gallone
Solo un mondo privo di strategia politica e senso di leadership può leggere in meri termini bellicistici la nota formula del generale prussiano Carl von Clausewitz secondo cui «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». Lungi dall’essere metafora di scontro totale, essa significa che la guerra prevede un inizio e un fine ma anche una fine, garantita proprio dal ruolo prioritario della politica. Che, in quanto tale, studia la complessità della realtà, approfondisce i moventi dell’agire umano, analizza gli spazi e i tempi entro cui un popolo agisce, esamina gli interessi psicologici degli attori in campo su cui incidono una vasta gamma di variabili, infine educa tutte le parti alla ricerca del compromesso.
Perché, scrive Sant’Agostino, «la pace non è l’assenza di guerra, ma la tranquillità dell’ordine». E se la condizione dell’ordine è il potere e la condizione del potere è il conflitto, la politica intesa come alta forma di carità è qui per questo: per incarnare sì il potere ma per evitare proliferazione e fanatismo del conflitto – senza avere la presunzione di annientarlo. Perciò la politica, fino a pochi decenni fa, era misura di tutte le cose. Persino della guerra.
Il 24 febbraio 2022, invece, ci siamo accorti di essere in un mondo pieno di conflitti ma senza politica. L’incapacità di trovare soluzioni efficaci a guerre che divampano da anni ne è limpida testimonianza: la questione ucraina non è nata nel 2022 né tantomeno nel 2014. Lo stesso vale per quella sudanese, azera, birmana, saheliana e via dicendo. Per non parlare della situazione in Medio Oriente: dopo i brutali attacchi terroristici di Hamas contro Israele e la pesantissima risposta israeliana che ha provocato 42mila vittime a Gaza, il conflitto si sta allargando a livello regionale con l’invasione del Libano e gli attacchi missilistici dell’Iran, con esisti imprevedibili.
Mentre la parola «negoziato» diventa tabù, le somme spese per la corsa al riamo si moltiplicano. E il rischio è sotto gli occhi di tutti, come evidenziato da Papa Francesco nell’incontro con le autorità e con la società civile in Belgio: «Siamo vicini a una guerra quasi mondiale». Ricordando come «la concordia e la pace non sono una conquista che si ottiene una volta per tutte» bensì «un compito» e «una missione incessante da coltivare», il pontefice ha tracciato due vie. La prima, durante il discorso tenuto alle autorità e alla società civile in Lussemburgo: «Vi è un impellente bisogno che quanti sono investiti di autorità si impegnino con costanza e pazienza in oneste trattative in vista della soluzione dei contrasti, con l’animo disposto a individuare onorevoli compromessi, che nulla pregiudicano e che invece possono costruire per tutti sicurezza e pace». La seconda, sottolineata tanto in Belgio quanto in Lussemburgo: la storia sia «magistra vitae» affinché «il cuore umano» sappia sempre «custodire la memoria».
La restaurazione secondo Vienna
Imparare dalla storia impone di scavare nell’intersezione di due coordinate: l’asse tra passato e futuro e l’asse tra i valori profondi e le aspirazioni dei popoli. In tal senso, il Congresso di Vienna datato 1815 è doppiamente utile. Innanzitutto, per i suoi criteri ispiratori: restaurare l’ordine internazionale antirivoluzionario, affermare il principio di legittimità dinastica, garantire l’equilibrio attraverso la divisione in sfere d’influenza. Lo scopo dell’evento considerato l’ouverture della storia contemporanea è in effetti ambizioso: ridisegnare i confini d’Europa dopo la sconfitta di Napoleone Bonaparte.
Nel farlo, ed ecco il secondo motivo della sua utilità, si ritiene necessario garantire una presenza pressoché completa di tutti gli Stati europei. Perciò nel castello di Schönbrunn l’imperatore austriaco Francesco II e il cancelliere Klemens von Metternich accolgono lo zar di Russia Alessandro I, il re di Prussia Federico Guglielmo III, il ministro degli Esteri britannico Castlereagh, il cardinal Consalvi per la Santa Sede e Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord per la Francia.
Nobile, politico, vescovo, chiamato nei palazzi «lo stregone della diplomazia» o «il diavolo zoppo», è proprio Talleyrand che, con la sua presenza, plasma la caratteristica essenziale di Vienna 1815: per la prima volta nella storia si decide di includere il nemico sconfitto nel nuovo ordinamento. Obiettivo: evitare che la potenza piegata e umiliata diventi fattore di revisione territoriale e di nuovi conflitti. La ricerca del compromesso prevede che Parigi partecipi alla restaurazione ma restituisca i territori conquistati dal 1792, ricostituisca la monarchia borbonica e limiti la potenza militare.
Contenere l’avversario impone di capirlo. Dunque, di parlarci e di ascoltarlo. Specie, ma non soltanto, quando la pace è stata messa o è a rischio. E la ricetta funziona: nonostante l’instabilità tra monarchici e repubblicani, la Francia entra in un periodo di relativa stabilità interna durata oltre cinquant’anni, interrotta dalla guerra franco-prussiana del 1870. Ancor più, l’ordine europeo sancito a Vienna dura un secolo.
La questione cubana
In questa carrellata storica non possono mancare casi più recenti. Si pensi ai tredici giorni in cui americani e sovietici ragionano su come impedire che la crisi dei missili sovietici diretti a Cuba datata 1962 si trasformi in conflitto globale.
Da un lato, le navi russe avanzano verso il «cortile di casa» americano, infrangendo la condizione geografica della cortina di ferro europea e alimentando il nazionalismo cubano mosso da Fidel Castro. Sotto la spinta più ideologica che tattica di Nikita Krusciov, i sovietici cercano di allargare lo spazio vitale del comunismo e di colpire nel cuore il nemico definito dal presidente cinese Mao Tse Tung una «tigre di carta». Dall’altro, gli americani – consapevoli della loro superiorità nei missili balistici intercontinentali – si domandano se i russi non stiano facendo prevalere il loro romanticismo ideologico sulle capacità di analisi strategica. Quindi, riflettono su come reagire al rischio di una nuova guerra mondiale, questa volta atomica, tenendo in considerazione l’opinione pubblica e la possibilità di un accordo.
Mentre da Roma giungono sempre più forti gli appelli di Papa Giovanni XXIII rivolti a «tutti gli uomini di buona volontà», fermezza, flessibilità, capacità di calcolo, controllo del consenso e volontà di non umiliare il nemico conducono entrambe le parti alla scelta finale. Washington decide di affidare le sorti di un ipotetico conflitto ai sovietici e, a questo punto, Mosca diventa consapevole di non potersi assumere il rischio di far arrivare i missili a Cuba e scatenare una guerra.
In tredici giorni la crisi si risolve, ma a una condizione: quella del compromesso. I sovietici avrebbero smantellato le loro armi a Cuba e le avrebbero riportate in patria. In cambio, gli americani si sarebbero pubblicamente impegnati a non tentare una nuova invasione dell’isola e, in segreto, avrebbero smantellato i missili Jupiter in Italia e in Turchia. In un solo colpo, i due principali motivi di ostilità cessano di esistere. Tutti fanno un passo indietro. E la Guerra fredda, intesa non come contrapposizione totale tra superpotenze bensì come controllo del rispettivo campo d’influenza, si conferma unico equilibrio possibile per evitare la guerra calda.
Il Beagle conteso
Negli stessi anni si consumano conflitti di minore dimensione ma di altrettanta rilevanza. Scoperto nel 1830 dal comandante inglese Robert Fitz-Roy a bordo della nave da cui prende il nome, situato sulla punta meridionale del Sud America e fondamentale per collegare il Pacifico all’Atlantico grazie alla sua lunghezza, il Canale di Beagle viene conteso per decenni da Argentina e Cile. La rivalità tra i due Paesi è basata sulla necessità di definire l’esatta demarcazione territoriale e marittima di una regione dalle promettenti potenzialità economiche e dalle importanti proiezioni strategiche.
In realtà, un trattato tra Argentina e Cile sulle frontiere, risalente al 1881, stabiliva che tutte le isole a sud del Canale erano cilene. Tuttavia, stabilizzate le faglie interne e valutati i rischi dell’espansionismo di Santiago verso sud in barba al principio bio-oceanico (il Cile nel Pacifico e l’Argentina nell’Atlantico), a partire dal ventesimo secolo si assiste a una serie di controversie a suon di battaglie giuridiche, incidenti diplomatici e tensioni militari. Gli argentini rivendicano la parte finale di Beagle affermando che le isole di Lennox, Picton e Nueva si trovano a est – e non a sud – del Canale. Anche il compromesso arbitrale firmato a Londra nel 1971 sotto l’egida britannica viene rigettato. Sul finire del 1978 le parti sono vicine alla soluzione militare.
Ma, proprio in questo momento, da Roma interviene l’autorità papale. Salito al soglio di Pietro il 16 ottobre 1978, Giovanni Paolo II si affretta a inviare in missione a Santiago e Buenos Aires il cardinale Antonio Samorè, diplomatico navigato in affari sudamericani. I risultati sono immediati: nel 1979 le due parti firmano un accordo in cui promettono di «non ricorrere alla forza». Nel frattempo, l’Argentina è scossa dal crollo del regime. L’esito della guerra delle Falkland/Malvinas contro il Regno Unito, la crisi economica e la pressione esercitata dai movimenti per i diritti umani portano nel 1983 alla vittoria elettorale di Raùl Alfonsìn.
L’ultimo sforzo del quasi ottantenne cardinal Samorè si compie in questa intercapedine: mentre l’Argentina crolla e risorge, il Cile ha bisogno di uscire dall’isolamento. Le due necessità nazionali conducono al compromesso regionale. Firmato il 19 ottobre 1984 a Roma presso la Santa Sede, il nuovo Trattato di pace e di amicizia tra Cile e Argentina affida a Santiago il contestato gruppo di isole Lennox, Picton e Nueva, ma compensa Buenos Aires: estensione del mare territoriale di tre miglia marine per entrambi i Paesi, linea di demarcazione per separare le due Zone Economiche Esclusive senza alcuna modulazione di sovranità, formale riconoscimento del principio bio-oceanico tanto nella zona australe quanto nello Stretto di Magellano, infine cooperazione in vari settori ritenuti prioritari.
L’accordo del Venerdì Santo
Le risoluzioni pacifiche dei conflitti avvengono in egual modo nel Vecchio Continente. Certo, è paradossale pensare come uno degli scontri etno-nazionalistici più longevi e cruenti del panorama contemporaneo europeo sia anche uno dei più ignorati. Eppure, le motivazioni per ricordare la questione nordirlandese ci sarebbero e vanno inquadrate nel modo attraverso cui si riesce a porre fine a una controversia risalente addirittura al diciassettesimo secolo.
Dopo la «Gloriosa Rivoluzione» del 1688 e la sconfitta di Giacomo II da parte di Guglielmo d’Orange nel 1690, l’Irlanda diviene parte integrante dell’impero britannico. Inizia così una frammentazione tra cattolici e protestanti che divampa soprattutto quando, nel 1920, il Regno Unito riconosce lo Stato autonomo della Repubblica d’Irlanda ma mantiene sotto la sua giurisdizione l’Irlanda del Nord. La popolazione locale si divide tra cattolici nazionalisti – che, rappresentati soprattutto dall’Irish Republican Army, aspirano alla riunificazione col resto dell’Irlanda – e protestanti unionisti – che, al contrario, insistono per rimanere nel Regno Unito. Dal 1969 al 1994 scoppia la «long war» nordirlandese: su un milione e mezzo di abitanti ne muoiono 3.700 a causa di battaglie civili, difficoltà economiche, sofferenze sociali e psicologiche. A poco servono l’intervento britannico per controllare il territorio tramite il «direct rule», l’accordo di Sunningdale nel 1973 o l’Irish-Anglo Agreement del 1985.
Proprio quando la questione sembra irrisolvibile se non con l’annientamento di uno dei due movimenti, i rappresentanti di otto dei dieci partiti eletti nel 1996 al Forum per il dialogo politico decidono di fare un passo indietro. Nasce da queste basi l’accordo di Belfast, firmato il 10 aprile 1998, giorno del Venerdì Santo, dai governi britannico e irlandese, ratificato con referendum popolare tenutosi in entrambe le parti d’Irlanda.
L’ampio consenso pubblico è frutto del compromesso perché, se da un lato la Repubblica d’Irlanda rinuncia costituzionalmente alle rivendicazioni dei territori delle sei contee settentrionali, dall’altro in Irlanda del Nord dovrà nascere una nuova assemblea parlamentare con esecutivo a potere condiviso tra unionisti e nazionalisti, capace quindi di dare il giusto peso alle differenze etniche e religiose. Istituzioni per la cooperazione fra Paesi, garanzia dei diritti umani, impegno al disarmo e riforma della polizia locale fanno il resto. Le tensioni non sono state azzerate, ma l’accordo del Venerdì Santo, come ricordato da Papa Francesco durante il discorso ai membri del corpo diplomatico dello scorso 8 gennaio, «ponendo fine a trent’anni di violento conflitto, può essere preso ad esempio per spronare e stimolare le autorità a credere nei processi di pace, nonostante le difficoltà e i sacrifici che richiedono».
La «formula italiana» per il Mozambico
Questa visione universale della Chiesa cattolica ha portato Roma ad essere protagonista di molteplici sforzi contro la guerra. Si pensi, tra i tanti, alla risoluzione del conflitto in Mozambico. Dopo l’indipendenza dal Portogallo, Maputo abbraccia il comunismo sotto la guida di Samora Machel, comandante di Frelimo e primo presidente del Mozambico. Ciò scatena la reazione di movimenti anticomunisti, spesso supportati dal Sudafrica e dalla Rhodesia, tra cui spicca in particolare Renamo.
La campagna informativa del governo, tesa a delegittimare Renamo, riscuote il sostegno della comunità internazionale: nessun dialogo con i banditi sanguinari, bensì la necessità di combatterli manu militari. Dal 1976 la guerra civile inizia e divampa: durata 16 anni, provoca circa un milione di morti, 1,7 milioni di rifugiati all’estero e 4 milioni di sfollati interni. Solo a Roma qualcuno crede nella possibilità di porre fine al conflitto attraverso la pace. Così, proponendo un approccio evangelico ed ecclesiale ai problemi internazionali, favorendo la cooperazione e il soccorso d’emergenza, negli anni Ottanta la Comunità di Sant’Egidio avvia progetti umanitari e di sviluppo per il Mozambico. Obiettivo: avvicinarsi alle parti in lotta come un attore credibile e capace di promuovere la pace, parallelamente all’impegno delle principali forze politiche italiane. La scelta di Sant’Egidio è lungimirante quanto rischiosa perché, come avrebbe rivelato il cardinal Matteo Maria Zuppi, si trattava di «avviare contatti con la guerriglia purché legati solo ed in maniera inequivocabile al processo di pace».
Il governo mozambicano si dimostra disposto prima ad accettare l’intervento di Sant’Egidio, poi a intraprendere un negoziato diretto con la Renamo. Nel febbraio 1990 si forma un gruppo di quattro osservatori che diventano presto mediatori ufficiali per la pace: a rappresentare Sant’Egidio vi sono il fondatore della comunità Andrea Riccardi e il sacerdote – oggi cardinale, presidente della Conferenza Episcopale Italiana – Matteo Maria Zuppi, seguiti dall’Arcivescovo di Beira, Monsignor Gonçalves, e dal presidente di Renamo, Alfonso Dhlakama.
Due anni più tardi, il 4 ottobre 1992, la «formula italiana» per la pace si dimostra vincente: a Roma i due rappresentanti di Frelimo e Renamo firmano l’Accordo Generale di Pace per il Mozambico. Una delle chiavi di volta di tutto l’accordo è il metodo scelto fin dal primo incontro: riconoscersi come membri della stessa famiglia e «mettere da parte ciò che divide e cercare quello che unisce». L’essenza del negoziato mozambicano in chiave romana sta tutta qui. Nella collaborazione tra soggetti diversi, nell’importanza del sistema regionale, nell’integrazione delle istituzioni giuridiche e amministrative, infine nella trasformazione dei ribelli in partito politico, riconosciuto e integrato.
«Fiat pax in virtute tua et abundantia in turribus tuis»
Ecco, dunque, la «historia magistra vitae» intesa come meditazione sull’esperienza e orientamento riflessivo basato su analisi e ricerca, cui attingere per desumere norme di condotta strategiche o per lanciare appelli a un mondo sempre più smemorato. Vienna, Cuba, Beagle, Belfast, Mozambico e casi simili lo dimostrano: il coraggio con cui Papa Francesco parla di «onorevoli compromessi» e «oneste trattative» non è ideologico, bensì radicato nella storia.
E, in senso tanto religioso quanto politico, con queste parole il pontefice intende ricordare come la pace è sì un dono di Dio ma anche una responsabilità umana. Che, come tale, richiede pazienza, perseveranza e capacità di ascolto mirate al tentativo sincero di porre fine alle discordie. Il domani non può essere solo il tempo del buio assoluto in cui muoversi a tentoni, provando e riprovando, facendo prevalere la superficialità.
Il mondo, oggi, è già cambiato rispetto a quello di due anni fa. Si è fatto più complesso, intrecciato. Richiede preparazione e umanità, disegni strategici e crepiti di stelle. Imporsi per dominarlo è formula assai rischiosa se non impossibile. Trovare e accettare il compromesso, da non confondere con una ritirata di princìpi morali o col crollo di una posizione, è atto solenne. È promessa condivisa. È «cum», dal latino «insieme», e «promissus», dal latino «promesso». Andare insieme verso il luogo promesso e verso ciò che è progettato. D’altronde, è compito della Santa Sede, in seno alla comunità internazionale, essere voce profetica e richiamo della coscienza.