Andrea De Angelis – Città del Vaticano
Un “no” all’ideologia di morte, un “sì” alla vita. Anche mettendo a rischio la propria. La storia di Giuseppe Zurlo sa di speranza, di carità, riscrive l’esperienza dei campi di concentramento nazisti, mostra al mondo i volti di chi seppe rifiutare la libertà dopo mesi di prigionia. Saranno due anni quelli vissuti dall’ufficiale italiano, poco più che ventenne. Il freddo, la fame, ma anche gesti di generosità importanti, a partire dal primo giorno, quando donò una delle sue due coperte a Mario Zigliara, con cui nascerà un rapporto di profonda amicizia.
Dalla Polonia alla Germania
L’arresto, il 13 settembre 1943. La deportazione prima in Polonia a Proski, poi nei campi di Olstynek, Deblin Irena, Ari Lager di Deblin, Biala Podlaska e quindi in Germania a Bremenvorde, Sandbostel, Wietzendorf e, infine, Bergen-Belsen. Giuseppe Zurlo, classe 1919, nasce a Cittadella, settimo di 14 figli. Durante tutta la giovinezza è impegnato in parrocchia, è membro dell’Azione Cattolica, dove avrà poi ruoli dirigenziali. Dopo la prigionia si laurea in Pedagogia, insegna, diventa direttore didattico alla Scuola Infermieri di Cittadella, si impegna per l’assistenza alle persone sole e ammalate. Lo fa con la moglie, Ines, con cui ha sei figli. La più piccola, Lucia Zurlo, ai nostri microfoni racconta la storia di un padre la cui vita ancora oggi, a dieci anni dalla morte, ha molto da insegnare alle nuove generazioni nei suoi scritti autobiografici, oggi disponibili in ebook.
Lucia, partiamo propria da quella coperta che suo padre donò ad un amico appena deportato, una delle prime pagine dei quaderni scritti durante la prigionia. Un gesto apparentemente piccolo, ma decisamente significativo considerando le rigide temperature che caratterizzavano i campi polacchi.
Sì, è proprio così. Lui ricordava come Mario fosse distratto e non avesse portato con sé nessuna coperta. Allora gli venne naturale donargliela. Vivevano insieme, dormivano nello stesso letto a castello e ha conservato sempre quella coperta, perché il freddo e la fame aumentavano di mese in mese.
A me ha colpito molto anche quello che scriveva alla madre. Non manifestò nelle lettere mai la situazione in cui si trovava, è così?
Sì, lui ripeteva sempre che pensava ai suoi genitori e pregava. In fondo questa era la sua vita, lo è stata fino alla fine e alla madre, ai fratelli non voleva recare assolutamente sofferenza. Hanno saputo qualcosa solamente al suo ritorno. Va detto, e questa è una delle sue caratteristiche più profonde, che lui ha saputo perdonare e capire. A Biala Podlaska ci fu un crollo generale degli ufficiali italiani, molti aderirono al Reich perché la situazione era disperata, furono vinti dal freddo e dalla fame. In molti, firmato il documento di adesione, furono rimandati a casa. Lui, con pochi altri, ha resistito fino alla fine, ma tornando a chi gli chiedeva i nomi di queste persone non rispose. Non fornì informazioni, ma volle rompere la catena di violenza, prendendola su di sé. Era un grande cristiano, si nutriva delle Scritture, del Vangelo, leggeva molto L’Osservatore Romano. Fece sua la spiritualità di Chiara Lubich. Il perdono e la misericordia sono stati un aspetto fondante della sua esistenza, come il vivere per la fraternità con una grande attenzione ai più fragili.
In un quaderno, nell’inverno 1944, lui scrisse che piuttosto che aderire al Reich si sarebbe fatto tagliare il collo e, poche righe dopo, scrisse ancora di come insieme ad altri aveva formato un gruppo di preghiera per sostenersi reciprocamente. Nonostante il contesto drammatico si accende una luce, anche grazie a suo padre?
Sì, lui voleva cercare e costruire il bene. Ripeteva che nulla è piccolo di ciò che è fatto per amore. Una costruzione che partiva da se stesso. In una lettera mi scrisse, anni fa, che lui si costruiva in preghiera. Questa profonda unione con Dio gli permetteva di essere autentico, concreto, nella sua professione, anche come consigliere comunale. Questa esperienza dolorosa l’ha forgiato, ha tirato fuori il meglio. Ha dato la vita per la democrazia e noi, oggi, non possiamo far finta di non sapere cosa significhi, non possiamo dimenticare chi ha dato tutto per i valori democratici. Mi ha colpito molto l’intervista ad Edith Bruck, in cui diceva che gli uomini non sono un numero, ma ognuno è un mondo. Lui scrive che all’arrivo in Polonia lo immatricolarono con un numero, era diventato 11117/b. Non ricorda nulla dell’arrivo, se non il freddo ed il fatto che fosse diventato un numero.
Lei, Lucia, è archivista. Cosa si prova quando si ha nelle mani ciò che ha scritto il proprio padre, cosa vive nell’unire le radici alla professione?
Per me è un’esperienza professionale e umana molto forte. Cerco di viverla con profondità e responsabilità, anche per questo tutti gli anni con i miei alunni delle medie e delle superiori ho sempre fatto un percorso alle radici della Costituzione, dando la testimonianza di papà. Siamo stati ricevuti un anno al Quirinale per questo, mi ha scritto Papa Francesco a cui va sempre il mio grazie. La speranza, le radici, bisogna capire cosa vale nella nostra vita, distinguere ciò che è fondamentale da quello che è secondario. Ho la fortuna di trovarlo dentro di me grazie a ciò che mi ha lasciato papà, e ho la grazia di poterlo donare. Cerco di farlo a piene mani.