di Emilio Artiglieri
Uno storico della Repubblica di Genova, Federico Donaver, definì Ettore Vernazza, nato intorno al 1470 e morto nel 1524, «l’uomo più benefico del suo tempo». A cinquecento anni dalla morte, avvenuta il 27 giugno 1524, a causa del contagio contratto nel volontario servizio agli appestati, l’arcidiocesi e la città di Genova hanno inteso dar vita a un vero e proprio anno giubilare (arricchito anche dal dono dell’indulgenza plenaria concesso dalla Penitenzieria apostolica), con un ampio programma di manifestazioni religiose e culturali, per mettere in evidenza una figura straordinaria di laico, notaio, padre di tre figlie che – dopo aver costruito la propria famiglia come una “Chiesa domestica” dove tutti «si volevano gran bene» – rimasto vedovo dedicò le sue energie, fisiche, morali e intellettuali a favore di poveri, infermi, carcerati, ma soprattutto di quelli che erano allora letteralmente “scartati” dalla società e dalle loro stesse famiglie, nell’ambito di una profonda e complessiva riforma spirituale che prendeva le mosse dall’esercizio, anche eroico, delle opere di misericordia.
La sua opera più famosa, ma certamente non l’unica, fu la creazione dell’Ospedale degli Incurabili, che doveva affiancare l’ospedale principale di Genova, quello di Pammatone, dove prestava servizio la sua maestra spirituale, la nobile santa Caterina Fieschi Adorno. “Incurabili”, all’epoca, erano definiti principalmente i malati di sifilide che, in un tempo di guerre e di invasioni di eserciti, si andava sempre più diffondendo. Poiché per essi non erano previste vere e proprie cure, questi malati non venivano accolti negli ospedali ordinari e spesso, a motivo del loro stato fisico, insopportabile alla vista e soprattutto all’olfatto, venivano cacciati dalle loro case, riducendosi a vagare per le strade, in condizioni miserevoli. Proprio per essi, Vernazza costituì l’Ospedale, o Ridotto, per gli Incurabili, attraverso la Confraternita o Compagnia del Divino Amore, che diede vita alla Societas Reductus infirmorum incurabilium sub titulo beatae Mariae. Lo spirito del “Divino Amore” è bene illustrato negli Statuti genovesi del 1497, ritrovati e pubblicati da padre Tacchi Venturi nella sua Storia della Compagnia di Gesù in Italia, narrata con il sussidio di fonti inedite, nei quali si legge: «Questa nostra Fraternita non è istituita per altro se non per radicare et piantare in li cori nostri il divino amore, cioè la carità». Da queste parole si evince con chiarezza come Ettore Vernazza sia stato spinto dalla carità di Dio, di cui egli, insieme ai confratelli, voleva essere umile strumento nel servizio ai poveri più abbandonati, come allora erano i malati incurabili. La figlia Battistina Vernazza, in una lettera biografica sul padre, ricordava che «perché haveva abbandonato sé stesso et per sua proprietà non faceva cosa alcuna, ma tutto per Dio, sua Maestà (cioè Dio) gli faceva sì che gli sortiva ogni cosa ottimamente […] et a me diceva: “Quando io metto la mano in qualche cosa, Dio gli mette lo crescente”».
Sotto l’impulso di Vernazza, anche a Roma si diede avvio a un “cenacolo” del Divino Amore. Gli era stata indicata l’antica Confraternita di Santa Maria del Popolo che, fin dai tempi di Nicolò V , aveva assunto la direzione e l’amministrazione dell’Ospedale detto di San Giacomo in Augusta. In un documento di Leone X del 1° luglio 1515, si dice che il Papa intendeva accogliere una supplica dei “diletti figli antichi e nuovi” della Fraternita, destinandola a una nuova funzione nell’Ospedale, diventato Arcispedale, di San Giacomo, quella appunto di incaricarsi dell’assistenza degli incurabili. Alcuni fratelli del Divino Amore, che cominciarono a radunarsi nella chiesetta dei Santi Silvestro e Dorotea a Porta Settimiana, in Trastevere, procurarono di iscriversi alla Confraternita di Santa Maria del Popolo, seguendo un percorso pari a quello che era stato ideato a Genova, quando era la Compagnia del Divino Amore a fornire gli elementi chiamati, attraverso opportune strutture, a reggere l’Ospedale. Prendere parte attiva all’amministrazione dell’Arcispedale degli Incurabili significava appartenere anche alla Compagnia del Divino Amore.
Ettore Vernazza non solo importò a Roma, e poi a Napoli e più o meno direttamente in altre città, un “metodo” organizzativo, ma, nel caso di Roma anticipò personalmente una notevole somma per la ristrutturazione di San Giacomo e, più tardi, quando l’ospedale si troverà impastoiato in difficoltà (1517-1518) se ne assumerà la carica di camerlengo, ossia amministratore. Si narra che lo stesso Vernazza si fosse presentato al cospetto di Papa Leone X dicendogli: «Voi, Santità, avete un bel proteggere le arti e le lettere; ma questa Roma non potete lasciare contristata da così miserando spettacolo (cioè dei malati incurabili abbandonati per strada)».
Per tornare alle opere genovesi, fin dalla più giovane età, tale era la carità che albergava nel suo cuore che «non poté mai quetare» finché non ebbe realizzato, con il favore del doge dell’epoca, Ottaviano Fregoso, il Lazzaretto per gli appestati. Le sue preoccupazioni non si volgevano però solo ai bisogni materiali dei fratelli bisognosi e infermi, per i quali sapeva mettere a disposizione, in modo previdente e oculato, le risorse che raccoglieva ma anche a quelli spirituali e culturali, con la creazione di istituti per le convertite, per le ragazze povere «ch’erano a pericolo di diventare cattive», per i «putti, che andavano motteggiando» (oggi si direbbe “ragazzi di strada”), per «mettere in avviamento (lavorativo) ogni deviato», così come con l’istituzione e dotazione di cattedre (con la precisazione che i maestri fossero “dottissimi”) di diritto, medicina, grammatica, retorica, filosofia e teologia, tanto che qualcuno lo considera un antesignano della fondazione dell’Università di Genova.
Per i suoi concittadini poveri (e soprattutto per quelli “vergognosi”), egli previde anche l’istituzione di servizi gratuiti di medici, chirurghi, farmacisti e avvocati, che ricevessero lo stipendio dai fondi da lui lasciati; sollevò la città di Genova dalle gabelle più odiose, come il dazio sul vitto, né dimenticò la cattedrale di San Lorenzo, al cui decoro e ingrandimento ugualmente provvide. Non mancò, sebbene laico, di intervenire nella cura dell’osservanza religiosa, favorendo, con opportune doti (all’epoca richieste sia per sposarsi, sia per monacarsi), le vocazioni delle giovani povere, ma autenticamente desiderose della vita del chiostro. Il suo programma di concreto umanesimo cristiano è lontano, da una parte, da ogni utopismo, e dall’altra dalla tentazione di cedere alla facile recriminazione e alla condanna dei mali esistenti, ai quali si pensa piuttosto come offrire rimedi efficaci e duraturi. Con la sua tenacia di ligure, con l’amicizia dei potenti (tra i quali il cardinale Bendinello Sauli e il protonotario Gian Pietro Carafa, futuro Paolo IV ), con il suo intuito giuridico e finanziario ma soprattutto con il suo ottimismo di credente, che si fida della provvidenza, egli pose le basi di opere destinate a sfidare i secoli.
Con il notaio genovese ci troviamo di fronte non solo all’uso della ricchezza in favore dei poveri ma nel contesto di un disegno finanziario grandioso, alla sua “moltiplicazione” programmata e guidata nel tempo. È questo il senso del “moltiplico”: i mezzi finanziari per le opere progettate erano dati dalla colonna del Vernazza presso il Banco di San Giorgio che, ivi depositata e sempre intangibile, doveva produrre i proventi necessari a due differenti indirizzi. Una parte serviva a raddoppiare il capitale, l’altra parte alle spese per la razionale e cronologica realizzazione delle opere. A un dato tempo, cronologicamente definito da Ettore Vernazza, la somma raggiungerà addirittura i 6000 luoghi, somma veramente eccezionale che consentiva l’esecuzione di tutti i progetti benefici di Vernazza e destinata nel tempo a moltiplicarsi ancora. Tale fondo sussisterà fino a quando avrà vita la Repubblica di Genova. Nella Compagnia del Divino Amore si puntava a un ideale molto alto ed esigente, a una spiritualità austera: era un movimento indirizzato a persone qualificate per la loro levatura spirituale ma anche per la loro posizione sociale, che fossero capaci di sostenere precise azioni benefiche. Il compito che si attribuiva agli aderenti, in breve, era quello di essere germe o lievito, secondo il suggerimento evangelico.
Come si è accennato, il metodo costante era quello di affidare le diverse iniziative ad altrettante “società” nelle quali fosse operante la presenza di uno o più fratelli del Divino Amore, che ne assumevano la direzione. Questa realtà ebbe un’importanza notevolissima nella preparazione di quella che sarà definita la “riforma cattolica”. Al sorgere degli ordini religiosi, nuovi o riformati (cappuccini, teatini, somaschi, gesuiti, Oratorio di San Filippo, camilliani), sarà presso gli “Incurabili” e in altre opere sbocciate dal Divino Amore che essi troveranno il loro ambiente spontaneo e il privilegiato campo delle prime attività, a Roma, come a Genova, a Venezia, a Napoli e altrove.
Tra le molteplici opere del Vernazza si ricorda ancora la rivitalizzazione della Compagnia del Mandiletto, un’associazione che prendeva nome dal termine dialettale mandillo, che equivale a fazzoletto o pezzuola, non solo nella sua accezione più comune ma anche in quella di tessuto o tela più ampia, impiegata per avvolgere e trasportare merce minuta. Lo scopo era quello che oggi definiremmo di “assistenza domiciliare”, ossia, come stabilivano i relativi Statuti, di portare «provvigioni temporali et spirituali ai poveri infermi della nostra città». Si può vedere in questa Compagnia la precorritrice delle “Conferenze di San Vincenzo” e, più recentemente, dell’organizzazione capillare della Caritas. In quest’opera di rinnovamento spirituale, Vernazza era affiancato dai rampolli delle migliori famiglie cittadine.
Il segreto della straordinaria fecondità della sua attività caritativa era sempre la sua fonte, ossia l’ardente desiderio di servire Dio nei fratelli: «Faceva tutto per Dio», ribadisce la figlia e biografa Battistina, la quale, per indicare come fosse lontano da ogni esibizionismo o dalla ricerca di interesse personale, ricorda una frase incisiva del padre, pronunciata quando seppe che volevano collocare nel Lazzaretto, da lui edificato, un suo ritratto: «Non voglio fumo». I documenti ci offrono di lui un vero e proprio ritratto di mistico umanista.
Morì nel servizio volontario agli appestati il 27 giugno 1524, nonostante che la figlia, alcuni giorni prima, avesse cercato di dissuaderlo: alle parole di prudenza umana che Battistina, canonichessa regolare lateranense, gli rivolgeva, Ettore rispose, quasi sdegnato: «Tu (sc. che sei Religiosa) mi devi dire queste cose? Chè sarei ben felice, s’io morissi per i poveri». Proprio perché morto per il contagio della peste, le sue spoglie finirono nell’acervo degli altri appestati.
Davvero Ettore Vernazza si è fatto tutto a tutti, è vissuto ed è morto per i poveri, gli abbandonati, i reietti dalla società, per curarne i corpi, per elevarne la mente, per salvarne le anime, nella costruzione di un’autentica “civiltà dell’amore”.