Giancarlo La Vella – Città del Vaticano
Sedici posti letto, ma anche possibilità di alloggio per chi è stato colpito dal coronavirus o è obbligato ad osservare una quarantena a causa del rischio di contagio. A Lamezia Terme, dopo un opportuno restauro ha ripreso vita il dormitorio del “Querce di Mamre”, esempio virtuoso di accoglienza destinato ad ospitare poveri e immigrati. La struttura il 9 ottobre scorso è stata inaugurata con una cerimonia di benedizione presieduta dal cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere pontificio, il vescovo di Malezia, monsignor Giuseppe Schillaci, e il direttore della Caritas diocesana, don Fabio Stanizzo.
Un mare d’amore
Il porporato, ricordando le parole di Papa Francesco ha detto che “ospitando i poveri, ospitiamo Gesù stesso. Madre Teresa parlava sempre delle piccole gocce nel mondo da cui nasce il fiume, dal fiume nasce il lago, dal lago nasce il mare. Anche se possono sembrare insignificanti e piccole, esse formano un mare di amore”. Il vescovo Schillaci ha parlato di “bella e buona notizia”. La Chiesa – ha sottolineato – è accoglienza e “va incontro ai bisogni della gente, dei più deboli, degli indifesi”. Don Fabio Stanizzo invece ha parlato di un luogo necessario per “rimettere al centro la dignità della persona”. Nell’intervista a Radio Vaticana – Vatican News il direttore della Caritas locale ha riferito come sia importante restituire ai più vulnerabili un motivo di vita per rimetter in piedi positivamente la propria esistenza.
Don Fabio come è andata questa giornata di inaugurazione?
E’ stata una giornata importante, anche perché ricorreva il decimo anniversario della visita di Papa Benedetto XVI alla nostra diocesi. Questo desiderio di riattivare la struttura nasce da una lettura dei bisogni della nostra diocesi, soprattutto guardando all’inverno scorso che è stato molto rigido. In quei giorni abbiamo incontrato, visitando le strade delle nostre città, diverse persone che dormivano fuori. Inizialmente abbiamo adoperato dormitori provvisori grazie ai parroci, grazie a dei locali che la diocesi ha messo a disposizione. Poi insieme al vescovo ci siamo interrogati su che cosa potevamo fare, come potevamo rispondere a questo bisogno. Allora ci siamo interfacciati con le autorità civili presenti sul territorio, che hanno dato la disponibilità di ridonare in comodato d’uso la struttura “Querce di Mamre”, adibendola a dormitorio, un edificio che già in passato la diocesi aveva utilizzato. Abbiamo fatto dei lavori di ripristino grazie al sostegno del 8 x 1000 di Caritas italiana e il giorno 9, con la presenza del cardinale Krajewski, abbiamo riaperto questo luogo, dove vogliamo dare soprattutto dignità all’uomo, alle persone che accogliamo, mettendolo al centro e in condizione di riappropriarsi della sua vita dei suoi talenti, dei valori, consentendogli anche di interagire, di interfacciarsi con la realtà. Con le persone competenti abbiamo studiato percorsi specifici perché al più presto queste persone possano tornare a vivere nel mondo e spesso anche a riprendere i contatti con i familiari che sono lontani. Ecco, quindi abbiamo realizzato questa struttura che può ospitare 16 posti letto. Abbiamo pensato anche alle persone che potrebbero contrarre il Covid o che debbono osservare la quarantena. Per cui all’esterno abbiamo realizzato delle casette che consentono di vivere in isolamento.
Chi sono i vostri ospiti, quali sono le loro storie?
Le storie dei nostri ospiti sono come le storie delle persone che incontriamo quotidianamente, storie più semplici e storie più complicate. Si tratta di persone arrivate qui con le barche della speranza o persone che sono qui solo per avere un documento, un’identità per poi andare altrove. Noi ci troviamo in un luogo nevralgico della nostra città, ma anche della Calabria, perché siamo vicini all’aeroporto e alla stazione ferroviaria, quindi è un luogo di passaggio. Quindi sono storie diverse l’una dall’altra. Proprio ieri ha bussato alla nostra porta una famiglia africana, il papà, un bambino e la moglie incinta. Ci siamo quindi adoperati perché siano ospitati in un’altra struttura. Sono senza documenti, senza un’identità, senza cure mediche, però il Vangelo ci risuona nel cuore e ci spinge ad opere di misericordia sia spirituale che corporale. Quindi cerchiamo di metterlo in pratica, soprattutto sostenuti dalla voce profetica di Papa Francesco che ci incoraggia sempre ad uscire ad accogliere.
Quale saluto del Papa vi ha portato il cardinale Krajewski?
Sì, per noi è stato veramente importante e fondamentale per le parole che ci ha rivolto il Pontefice. Soprattutto quando il cardinale ci ha detto che pensiamo di dare, ma invece siamo noi che riceviamo tanto da ogni storia, da ogni volto, da ogni persona che incontriamo. E questo è vero. Anche gli operatori e i volontari hanno ribadito questo. E poi l’importanza della preghiera. Il cardinale Krajewski ha usato un’espressione bellissima: ovvero che “che dobbiamo abbronzarci davanti all’eucaristia”. Quindi dobbiamo essere uomini e donne, volontari, sacerdoti, operatori, laici, diaconi e trovare la forza per poi donare e ricevere dai nostri che incontriamo quotidianamente sul nostro cammino e sulla nostra strada.
La locandina che ha presentato l’iniziativa del 9 ottobre scorso riporta un passo del Vangelo di Matteo, “ero straniero e mi avete accolto”. Sentirsi straniero è una dimensione che può riguardare chiunque?
Sì, non si è stranieri solo sulla base di un documento, di una carta d’identità o geografica. Ci sono anche tante persone della diocesi che si sentono stranieri. Quindi ecco dobbiamo arrivare ad un punto in cui nessuno si senta straniero, ma tutti possiamo sentirci fratelli sorelle e soprattutto sentirci sulla stessa barca. Ecco il nostro compito è remare, come il Papa ci ha ricordato, tutti verso la stessa direzione. Questo vuole essere un piccolo segno, una goccia nell’oceano, come diceva Madre Teresa, però dove la Chiesa è presente, essa vuole che siamo tutti fratelli e possiamo camminare tutti insieme, anche alla luce del Sinodo che è appena iniziato.