Il 6 agosto 1964 Papa Montini pubblicava il documento programmatico del suo pontificato, un “messaggio fraterno e familiare” che riflette sul rapporto della Chiesa con Cristo e del dialogo con il mondo
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Sono passati sessant’anni dal quel 5 agosto 1964, quando Paolo VI, Vescovo di Roma da poco più di un anno, annunciava durante l’udienza generale a Castelgandolfo, la pubblicazione dell’Ecclesiam suam: «Faremo a voi una confidenza…: abbiamo finalmente terminato di scrivere la nostra prima lettera enciclica, la quale porterà la data della festa della Trasfigurazione di Cristo, domani 6 agosto, e nel testo latino comincerà con le parole, che serviranno a identificarla, Ecclesiam suam; sarà pubblicata, speriamo, nella prossima settimana». Il documento programmatico di Giovanni Battista Montini viene dunque firmata lo stesso giorno in cui, quattordici anni dopo, il Papa morirà. È un testo manoscritto interamente dal Pontefice.
La coscienza che la Chiesa ha di sé stessa
L’enciclica si propone di chiarire sempre più quanto la Chiesa «sia importante per la salvezza dell’umana società, e dall’altra quanto stia a cuore alla Chiesa che ambedue s’incontrino, si conoscano, si amino». «La Chiesa avverte la sbalorditiva novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate». Il testo della lettera, spiega Papa Montini, non riveste «carattere solenne e propriamente dottrinale» ma «vuol essere un messaggio fraterno e familiare», imperniato su tre pensieri. Il primo riguarda la necessità per la Chiesa di «approfondire la coscienza di sé stessa». Il secondo è di correggere «i difetti» dei membri della Chiesa e «di farli tendere a maggior perfezione», e quale sia «il metodo per giungere con saggezza a tanto rinnovamento». Paolo VI si rivolge ai vescovi «per trovare non solo maggiore coraggio a intraprendere le dovute riforme», ma anche per avere «consiglio ed appoggio in così delicata e difficile impresa». Il terzo pensiero riguarda le «relazioni che oggi la Chiesa deve stabilire col mondo che la circonda ed in cui essa vive e lavora». È il grande tema del dialogo fra la Chiesa e il mondo moderno, la cui «urgenza» è tale «da costituire un peso» nell’animo del Papa, anzi quasi «una vocazione».
Il rischio della mondanità
«È a tutti noto», si legge nell’Ecclesiam suam, «che la Chiesa è immersa nell’umanità, ne fa parte, ne trae i suoi membri, ne deriva preziosi tesori di cultura, ne subisce le vicende storiche, ne favorisce le fortune. Ora è parimenti noto che l’umanità in questo tempo è in via di grandi trasformazioni, rivolgimenti e sviluppi, che cambiano profondamente non solo le sue esteriori maniere di vivere, ma altresì le sue maniere di pensare». «Tutto ciò, come le onde d’un mare», spiega il Papa, mettendo in guardia dal rischio diventare troppo mondani, «avvolge e scuote la Chiesa stessa: gli animi degli uomini, che ad essa si affidano, sono fortemente influenzati dal clima del mondo temporale; così che un pericolo quasi di vertigine, di stordimento, di smarrimento può scuotere la sua stessa saldezza e indurre ad accogliere i più strani pensamenti, quasi che la Chiesa debba sconfessare se stessa ed assumere nuovissime e impensate forme di vivere». «Il primo frutto della approfondita coscienza della Chiesa su sé stessa», aggiunge Paolo VI, «è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo».
Il cristianesimo incontra la cultura moderna
L’enciclica procede riaffermando la necessità dell’incontro tra cristianesimo e cultura moderna. «Questo immanente contatto della Chiesa con la società temporale genera per essa una continua situazione problematica, oggi laboriosissima. Da un lato la vita cristiana, quale la Chiesa difende e promuove, deve continuamente e strenuamente guardarsi da quanto può illuderla, profanarla, soffocarla, quasi cercasse di immunizzarsi dal contagio dell’errore, e del male; dall’altro lato la vita cristiana deve non solo adattarsi alle forme di pensiero e di costume, che l’ambiente temporale le offre e le impone, quando siano compatibili con le esigenze essenziali del suo programma religioso e morale, ma deve cercare di avvicinarle, di purificarle, di nobilitarle, di vivificarle, di santificarle».
I contorni della riforma
Il Papa precisa poi i contorni della riforma, specificando che essa «non può riguardare né la concezione essenziale, né le strutture fondamentali della Chiesa cattolica. La parola riforma sarebbe male usata se in tale senso fosse da noi impiegata». «Non ci illuda», avverte ancora Montini, «il criterio di ridurre l’edificio della Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le buone; né ci incanti il desiderio di rinnovare la struttura della Chiesa per via carismatica». Paolo VI mette in guardia anche dall’idea che con la riforma consista nel conformarsi al mondo: «È necessario confermare in noi tali convinzioni per evitare un altro pericolo, che il desiderio di riforma potrebbe generare… nell’opinione di molti fedeli che pensano dover consistere principalmente la riforma della Chiesa nell’adattamento dei suoi sentimenti e dei suoi costumi a quelli mondani. Il fascino della vita profana oggi è potentissimo. Il conformismo sembra a molti fatale e sapiente. Chi non è ben radicato nella fede e nella pratica della legge ecclesiastica pensa facilmente essere venuto il momento di adattarsi alla concezione profana della vita, come se questa fosse la migliore, fosse quella che un cristiano può e deve far propria».
La minaccia del relativismo
Paolo VI parla già in questa prima enciclica della minaccia del relativismo. «Il naturalismo minaccia di vanificare la concezione originale del cristianesimo; il relativismo, che tutto giustifica e tutto qualifica di pari valore, attenta al carattere assoluto dei principi cristiani… talvolta il desiderio apostolico d’avvicinare ambienti profani o di farsi accogliere dagli animi moderni, da quelli giovani specialmente, si traduce in una rinuncia alle forme proprie della vita cristiana e a quello stile stesso di contegno, che deve dare a tale premura di accostamento e di influsso educativo il suo senso ed il suo vigore. Non è forse vero che spesso il giovane Clero, ovvero anche qualche zelante Religioso guidato dalla buona intenzione di penetrare nelle masse popolari o in ceti particolari cerca di confondersi con essi invece di distinguersi, rinunciando con inutile mimetismo all’efficacia genuina del suo apostolato?».
L’aggiornamento
Paolo VI riprende poi il tema dell’«aggiornamento», spiegando che la perfezione non consiste nell’«immobilità delle forme, di cui la Chiesa s’è, lungo i secoli, rivestita; e neppure ch’essa consista nel rendersi refrattari agli avvicinamenti ed accostamenti alle forme oggi comuni e accettabili del costume e dell’indole del nostro tempo. La parola, resa ormai famosa, del Nostro venerato Predecessore Giovanni XXIII di felice memoria, la parola “aggiornamento” sarà da Noi sempre tenuta presente come indirizzo programmatico». Ma, ammonisce nuovamente il papa, evidentemente preoccupato al riguardo, «non tanto cambiando le sue leggi esteriori la Chiesa ritroverà la sua rinascente giovinezza, quanto mettendo interiormente il suo spirito in attitudine di obbedire a Cristo, e perciò di osservare quelle leggi che la Chiesa nell’intento di seguire la via di Cristo prescrive a sé stessa». Due gli «accenni particolari» che Paolo VI fa nell’enciclica richiamando la Chiesa ai doveri dello «spirito di povertà» e «di carità».
Il dovere dell’evangelizzazione
L’Ecclesiam suam affronta quindi il tema del dialogo con il mondo. «Se la Chiesa acquista sempre più chiara coscienza di sé, e se essa cerca di modellare sé stessa secondo il tipo che Cristo le propone, avviene che la Chiesa si distingue profondamente dall’ambiente umano, in cui essa pur vive, o a cui essa si avvicina».
Questa distinzione, spiega Paolo VI, «non è separazione. Anzi non è indifferenza, non è timore, non è disprezzo. Quando la Chiesa si distingue dall’umanità non si oppone ad essa, anzi si congiunge», non fa «della misericordia a lei concessa dalla bontà divina un esclusivo privilegio, non fa della propria fortuna una ragione per disinteressarsi di chi non l’ha conseguita» ma «della sua salvezza fa argomento d’interesse e di amore per chiunque le sia vicino e per chiunque, nel suo sforzo comunicativo universale, le sia possibile avvicinare». Montini intende il dialogo come «bisogno di effusione», «dovere dell’evangelizzazione»: «È il mandato missionario. È l’ufficio apostolico. Non è sufficiente un atteggiamento di fedele conservazione… La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio», perché «ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli».
Il dialogo non è imposizione
Paolo VI definisce «dialogo della salvezza» la missione di Gesù, un dialogo che «non obbligò fisicamente alcuno ad accoglierlo; fu una formidabile domanda d’amore, la quale, se costituì una tremenda responsabilità in coloro a cui fu rivolta, li lasciò tuttavia liberi di corrispondervi o di rifiutarla». «Questa forma di rapporto», spiega ancora il pontefice, «indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d’inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell’interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni». Il dialogo, scrive il papa, suppone «lo stato d’animo di chi… avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui». Il dialogo «non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è paziente; è generoso». È «l’unione della verità con la carità, dell’intelligenza con l’amore».
Non si salva il mondo da fuori
Il mondo, avverte Paolo VI sintetizzando mirabilmente la prossimità della Chiesa verso tutti, «non si salva dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo».
Il Papa rimarca ancora una volta i pericoli insisti nell’«arte dell’apostolato», ricordando che «la sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai principi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. L’irenismo e il sincretismo sono in fondo forme di scetticismo rispetto alla forza e al contenuto della Parola di Dio, che vogliamo predicare. Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo».
L’ateismo
Paolo VI divide quindi i destinatari del dialogo missionario in tre «cerchi». Il primo è rappresentato da «tutti gli uomini di buona volontà», perché «nessuno è estraneo al cuore della Chiesa, «nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo». «Noi sappiamo però», continua il papa introducendo il tema dell’ateismo, «che in questo cerchio sconfinato sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione; sappiamo anzi che molti, in diversissime forme, si professano atei. E sappiamo che vi sono alcuni che della loro empietà fanno professione aperta e la sostengono come programma di educazione umana e di condotta politica, nella ingenua ma fatale persuasione di liberare l’uomo da concezioni vecchie e false della vita e del mondo, per sostituirvi, dicono, una concezione scientifica e conforme alle esigenze del moderno progresso.
L’ateismo è «il fenomeno più grave del nostro tempo. Siamo fermamente convinti che la teoria su cui si fonda la negazione di Dio è fondamentalmente errata, non risponde alle istanze ultime e inderogabili del pensiero, priva l’ordine razionale del mondo delle sue basi autentiche e feconde».
Comunismo e Chiesa del silenzio
Paolo VI cita poi esplicitamente il comunismo e le persecuzioni dei cristiani, ricordando «le ragioni che ci obbligano, come hanno obbligato i Nostri Predecessori e con essi quanti hanno a cuore i valori religiosi, a condannare i sistemi ideologici negatori di Dio e oppressori della Chiesa, sistemi spesso identificati in regimi economici, sociali e politici, e tra questi specialmente il comunismo ateo… La nostra deplorazione è, in realtà, lamento di vittime ancor più che sentenza di giudici». Cita la Chiesa del silenzio che tace, «parlando solo con la sua sofferenza». Ma il Papa cerca di cogliere anche «nell’intimo spirito dell’ateo moderno i motivi del suo turbamento e della sua negazione. Li vediamo complessi e molteplici, così da renderci cauti nel giudicarli e più efficaci nel confutarli» e fa notare come «le dottrine» di certi movimenti, una volta elaborate e definite, rimangano «sempre le stesse, ma che i movimenti stessi non possano non evolversi e non andare soggetti a mutamenti anche profondi, Noi non disperiamo che essi possano aprire un giorno con la Chiesa altro positivo colloquio, che non quello presente della Nostra deplorazione e del Nostro obbligato lamento». Un passaggio è dedicato alla pace «libera ed onesta», che «esclude infingimenti, rivalità, inganni e tradimenti; non può non denunciare, come delitto e come rovina, la guerra di aggressione, di conquista o di predominio».
I credenti nell’unico Dio
Il secondo dei cerchi disegnati da papa Montini «è quello degli uomini innanzi tutto che adorano il Dio unico e sommo». «Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose», si legge nell’Ecclesiam suam, «né possiamo rimanere indifferenti, quasi che tutte, a loro modo, si equivalessero, […] ché anzi, per dovere di lealtà, noi dobbiamo manifestare la nostra persuasione essere unica la vera religione ed essere quella cristiana». Ma, dopo aver riaffermato la fede nell’unicità salvifica di Gesù, Paolo VI dice di non voler «rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane» e di voler «con esse promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficenza sociale e dell’ordine civile».
Gli altri cristiani
Il terzo cerchio, infine, riguarda il dialogo con i cristiani delle altre confessioni. Il papa chiarisce a questo proposito: «su tanti punti differenziali, relativi alla tradizione, alla spiritualità, alle leggi canoniche, al culto, Noi siamo disposti a studiare come assecondare i legittimi desideri dei Fratelli cristiani, tuttora da noi separati. Nulla tanto ci può essere più ambito che di abbracciarli in una perfetta unione di fede e di carità». Anche qui, però, Paolo VI traccia confini precisi. «Dobbiamo pur dire che non è in Nostro potere transigere sull’integrità della fede e sulle esigenze della carità. Intravediamo diffidenze e resistenze a questo riguardo. Ma ora che la Chiesa cattolica ha preso l’iniziativa di ricomporre l’unico ovile di Cristo, essa non cesserà di procedere con ogni pazienza e con ogni riguardo».
Il primato di Pietro
Un passaggio conclusivo è dedicato al primato di Pietro. «Un pensiero, a questo riguardo, Ci affligge… Non si dice da alcuni che, se fosse rimosso il primato del Papa, l’unificazione delle Chiese separate con la Chiesa cattolica sarebbe più facile? Vogliamo supplicare i Fratelli separati a considerare la inconsistenza di tale ipotesi; e non già soltanto perché, senza il Papa, la Chiesa cattolica non sarebbe più tale; ma perché, mancando nella Chiesa di Cristo l’ufficio pastorale sommo, efficace e decisivo di Pietro, l’unità si sfascerebbe; e invano poi si cercherebbe di ricomporla con criteri sostitutivi di quello autentico, stabilito da Cristo stesso […]. E vogliamo altresì considerare che questo cardine centrale della santa Chiesa non vuole costituire supremazia di spirituale orgoglio e di umano dominio, ma primato di servizio, di ministero, di amore. Non è vana retorica quella che al Vicario di Cristo attribuisce il titolo di servo dei servi di Dio».
L’eco dell’enciclica pacelliana
Va notato come l’enciclica programmatica di Paolo VI dipenda profondamente, dal punto di vista teologico dalla Mystici corporis di Pio XII, citata per esteso in due significativi brani, uno dei quali invita a «riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo». L’enciclica pacelliana risuona anche in molte definizioni contenute nell’Ecclesiam suam: la Chiesa corrisponde ai tralci di cui Cristo è la vite; la Chiesa è mistero, un mistero che «non è semplice oggetto di conoscenza teologica», ma un «fatto vissuto, in cui ancora prima d’una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza».