Sul numero di giugno del mensile de L’Osservatore Romano, viaggio alla periferia della città del Mozambico dove sorge la coloratissima casa di una comunità di donne sieropositive sostenuta da Cuamm – Medici con l’Africa. Don Dante Carraro: “Sono donne abbandonate, ammalate, in terapia, ma dando loro un’opportunità riescono a trovare un lavoro e riacquistare la loro dignità”
Di Diamante D’Alessio*
Risate. Canti. Donne che ballano. Musica a tutto volume. Un sole fortissimo. Una porticina si apre ed entriamo in un cortile colorato alla periferia di Beira, Mozambico. «È una casa felice quella che riceve gli ospiti»: ci accoglie così Francisca Joao Mavura, la presidentessa dell’associazione Kuplumussana, una comunità di donne sieropositive che sono state abbandonate dai loro compagni, molte violentate. Quasi tutte hanno dato alla luce dei bimbi sieropositivi. «Noi – dice don Dante Carraro, direttore del Cuamm Medici con l’Africa -stiamo sostenendo queste donne perché sono abbandonate, ammalate, in terapia. Ma abbiamo sperimentato oramai da molti anni che se dai loro un’opportunità riescono a trovare un lavoro e riacquistare la loro dignità». Si danno coraggio a vicenda: qui resilienza non è solo una parola. Il cuore della comunità è questa casetta spartana, coloratissima e dignitosa, che il Cuamm ha aiutato a sistemare e che serve da base per queste donne che spesso non hanno nulla. Alcune di loro hanno trovato lavoro negli ambulatori supportati dal Cuamm o in ospedale.
L’associazione esiste da 20 anni: le donne eleggono una presidentessa e tra loro si aiutano e si motivano: Kuplumussana, in lingua sena, vuol dire “donne che aiutano altre donne”. O, ancora meglio, donne che salvano altre donne.
È una realtà bella, nata dal basso, che sta tentando di dare dignità a queste ragazze e allo stesso tempo serve a rafforzare le attività di controllo su Hiv nel territorio. Ce ne è molto bisogno: secondo gli ultimi dati pubblicati dal Ministero della salute, il tasso di prevalenza dell’Hiv tra persone di età superiore ai 15 anni si attesta intorno al 13,2% nella sola provincia di Sofala, dove si trova la città di Beira.
«Qui da diversi anni – continua don Dante -noi del Cuamm lavoriamo nella rete dei consultori per gli adolescenti in cui si cerca di sensibilizzare i giovani sui temi della salute sessuale e riproduttiva e dove le persone in trattamento con i farmaci antiretrovirali vengono accompagnate e seguite dal personale sanitario, incluso uno psicologo». Sono nove i consultori del distretto di Beira in cui il Cuamm è presente e dove lavora con gruppi di attivisti composti da giovani ma anche da donne sieropositive, molte delle quali provengono proprio dall’associazione Kuplumussana.
«Nel 2022, all’interno di questi consultori è stato possibile garantire oltre 66.958 test per l’Hiv e individuare 597 pazienti sieropositivi»: don Dante lo dice con un sorriso di speranza.
Nel cortile ci sono tavoli apparecchiati ma prima si balla, tutti insieme, a un ritmo forsennato per ringraziare la vita. Le donne della comunità girano in tutto il distretto di Beira, organizzando sessioni teatrali, incontri e attività sui temi della salute sessuale e riproduttiva. Racconta Isabel Domingos Aleixo, una delle veterane dell’associazione: «All’inizio c’erano poche mamme che si riunivano sotto una tettoia, ogni venerdì, per parlare, per sfogarsi, per vincere la paura. E si controllavano a vicenda, monitorando chi abbandonava il trattamento. Il compito più importante era convincerle a riprendere le medicine, poi venivano inserite nel gruppo della comunità. Anche adesso è così».
Sono tutte donne. E, un’altra donna, Maria Laura Mastrogiacomo, dottoressa mandata dal Cuamm in Mozambico, le ha aiutate a cercare di allargare il raggio per raggiungere più sieropositive possibile.
Alcuni numeri per capire quanto il Mozambico sia un paese ancora fragile ma giovane: qui l’età media della popolazione è di 17 anni ma l’aspettativa di vita è di 56 e 4,7 è il numero medio di figli per donna. Peccato che in questo Paese la mortalità materna sia di 289 bimbi ogni centomila nati e, anche a causa della malnutrizione, la mortalità dei bambini fino ai 5 anni si attesti a 70 ogni mille. Davvero troppi.
Francisca Joao Mavura ha 41 anni e 4 figli: «Ne avevo 22 quando ho scoperto di essere sieropositiva. Aspettavo un bimbo e mi è crollato il mondo addosso, avevo paura di morire: quando l’ho detto a mio marito per i primi mesi mi è stato vicino, poi mi ha abbandonato e non ha mai accettato di fare il test. All’ospedale di Beira ho scoperto che esisteva questa associazione e ho iniziato a frequentarla: ora ho una casa mia e i miei figli hanno potuto studiare. Alcune donne uscite da qui sono diventate poliziotte o infermiere e si sono costruite un futuro». Lo dice con un orgoglio che contagia.
Mentre parlo con Francisca le altre donne organizzano dei tableaux vivants, per raccontare le loro storie: venti anni fa se una donna aveva l’Hiv veniva gettata fuori casa dal marito, diventava una senza casta, senza alcuna protezione.
Ora la consapevolezza è cambiata tanto che l’associazione ha aperto anche agli uomini: ci sono papà che accettano di parlare da uomo a uomo ad altri uomini per convincerli a fare i test e curarsi.
Anche la vita di Isabel Mendes, 41 anni e una figlia di 24, è stata ed è un esercizio continuo di resilienza: ha scoperto di essere sieropositiva appena restata incinta e il suo compagno è sparito una sera lasciandola con la bimba appena partorita. Non lo ha più visto e Isabel aveva anche la tubercolosi che complicava tutto. Ma le si illuminano gli occhi quando racconta che «mia figlia, grazie anche all’aiuto dell’associazione e del Cuamm ha appena preso il diploma di infermiera e ora viviamo in una casa dove ci sono tre generazioni di donne forti: mia madre, io e mia figlia. Per questo devo restituire l’aiuto che ho avuto io alle altre donne: il mio sogno è continuare a fare da madrina alle altre ragazze che hanno bisogno di supporto e di protezione».
Essere madrina mae è essenziale, come spiega Nicha Alberto, 30 anni, e 3 figli adolescenti, che è stata adottata da una kuplumussana quando ha iniziato ad avere i sintomi dell’Hiv : «Lei mi supervisionava, mi era vicino quando stavo male e mi ha convinto a fare il test, mentre io in quella epoca negavo a me stessa cosa stava succedendo… È stata lei ad accompagnarmi e quando sono risultata positiva ha iniziato ad incoraggiarmi, anche perché io avevo da poco perso mio marito per la stessa malattia, lui non aveva mai accettato il suo risultato positivo. Si ripeteva che fosse “um fetisso” (come un malocchio/maledizione, ndr); cercava risposte nella medicina alternativa, è andato via di casa cercando curandeiro e altri stregoni. Quando ha accettato il trattamento, era già molto grave e le medicine non lo hanno salvato. Quando lui è morto io non ho fatto il test, mi sono convinta che quel risultato non fosse corretto. Ma dopo un anno ho cominciato a stare male, mi sentivo stanca, avevo dolori ovunque; ed è proprio in questo momento che ho incontrato la mae kuplumussana. Lei sapeva anche solo guardandomi ma non poteva dirmelo direttamente perché aveva paura della mia reazione, mi ha convinta piano piano».
Se si chiede a Amelia Afonso, 49 anni, tra le fondatrici dell’associazione, cosa vuol dire oggi essere sieropositiva, abbassa gli occhi e la voce per sussurrare: «quando andai la prima volta in ospedale per una visita prenatale e risultai positiva la gente mi scansava perché tutti sapevano che in quell’ospedale si trattava l’Hiv. Ora i miei 3 figli sono negativi, il più grande ha 20 anni: fino a pochi anni fa i bambini nascevano e morivano senza sapere il vero motivo. Oggi le informazioni sono chiare, ci sono lezioni in televisione, alla radio, nei centri di salute… prima c’era molta discriminazione». Anche suo marito l’ha lasciata.
«Quando ho scoperto di essere sieropositiva, siamo andati in spiaggia e lui ha pianto terrorizzato di essere anche lui positivo. L’ho convinto a fare il test: era negativo. Ma da quel momento ha perso fiducia in me, mi ha lasciato e ha trovato un’altra moglie. Me la sono passata male, non avevo una casa mia, dovevo pagare l’affitto, ho iniziato a fare lavoretti in strada, dovevo sfamare i miei figli, ma le altre mae kuplumussane mi hanno detto “ci sono persone che restano senza marito ma che sopravvivono supportandosi le une con le altre” e così io oggi sono senza marito, sola con i miei figli, ma ho la mia casa. Lui dopo un po’ è tornato da me, mi ha trovato in forze, e quando mi ha visto mi ha detto “non sei già morta??? Mi ha chiesto di tornare insieme, ma io gli ho risposto che mi aveva già lasciato una volta e lo avrebbe potuto rifare».
Albertina Francisco aveva 29 anni quando è inciampata nelle Kuplumuassane e l’Hiv lo aveva contratto probabilmente da bambina, orfana di padre e madre, abbandonata. «A 20 anni stavo già molto male, ero piccola, gracile, malnutrita, non avevo neanche il ciclo; mia sorella di un’età simile era già sposata con figli mentre io sembravo una bimba. Con le prime relazioni sono rimasta incinta e nella consulta pre-natale ho conosciuto le kuplumussane. È nata una bambina ed è risultata negativa, oggi ha 20 anni. Dopo questa prima figlia stavo bene e ho deciso di smettere di prendere le medicine. Poi sono rimasta di nuovo incinta e, questa volta, il bambino è risultato positivo. Le kuplumussane sono tornate da me per ricordarmi quanto fosse importante l’aderenza alla terapia e ai controlli medici. Mi hanno convinto che non sono sola, che eravamo responsabili per i nostri figli. Da li ho iniziato a lavorare con l’associazione, a fare lezioni io stessa».
«Ho lavorato in un progetto a Buzi (a sud di Beira) dove nella casa de espera (di attesa) per le donne incinte facevamo gli incontri mae para mae per donne sieropositive- continua a raccontare Albertina-. Mi sono legata ad una madre, che è morta quando è nata la sua bambina. Io mi ero molto affezionata alla sua famiglia – 4 bambini con l’ultima nata-, li ho aiutati, alla fine mi chiamavano mamma. Fino ad allora molti uomini quando dicevo che ero sieropositiva mi abbandonavano e così io decidevo di sospendere il trattamento, perché non lo scoprissero. I primi 3 figli li ho avuti da 3 uomini diversi. Ma con questa famiglia è stato diverso, il padre mi ha proposto di vivere insieme. Io gli ho detto che ero sieropositiva. Lui mi ha risposto che se avessi continuato i trattamenti era pronto a vivere con me. Alla fine lui è risultato positivo ma sta facendo bene il trattamento e ora abbiamo 3 figli insieme. Tutti mi chiamano mamma, non importa chi sia la madre naturale. Abbiamo creato un lar feliz (una casa felice). Le Kuplumussane mi hanno aiutato a realizzare questo sogno, con quello che guadagno do da mangiare a tutti. Mio marito non lavora, fa il contadino. Ora una delle mie figlie, la più grande sta studiando, e questa è una benedizione per me. Io sono analfabeta. Ma il progetto delle Kuplumussane non può finire qui».
*Ha collaborato Irene Avagnina (pediatra Cuamm)