Don Pietro e il ricordo del Vajont: “1917 vittime vicarie, come Gesù sulla croce”

Vatican News

A 60 anni dalla grande frana che, il 9 ottobre 1963, provocò l’ondata dell’acqua della diga che distrusse Longarone, nel bellunese, la testimonianza del parroco chiamato a sostituire i sacerdoti morti nel disastro. I superstiti “si chiedevano perché i responsabili della diga non avessero avvertito la popolazione del pericolo imminente”. La statua di Maria “nel Piave accanto alle vittime”

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Quel giovane sacerdote con gli occhiali, in piedi davanti alle macerie delle case di Longarone, distrutta dall’ondata scesa dal lago della diga del Vajont, dopo la frana del monte Toc, e poi davanti a quello che resta, solo il sagrato, cinque gradoni, il pavimento e due campane, della chiesa dedicata a Santa Maria Immacolata, è don Pietro Bez, allora 32 enne nuovo parroco della cittadina bellunese, nell’Alta Valle del Piave. È stato chiamato a sostituire l’arciprete don Bortolo Larese e il cappellano don Lorenzo Larese, travolti dall’acqua e dal fango pochi minuti dopo le 22.39 del 9 ottobre 1963. Quando un pezzo del Toc, 270 milioni di metri cubi di rocce, vegetazione e pascoli, sono caduti nel lago artificiale, sollevando un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua, che ha saltato la diga ed è precipitata a valle ad una velocità di più di 80 chilometri all’ora.

Una tragedia che portò via “487 dei nostri bambini”

Don Pietro, che da dieci anni vive nel Centro di Spiritualità e Cultura “Papa Luciani”, della diocesi di Belluno-Feltre, a Santa Giustina, è stato parroco di Longarone per sedici anni, fino al 1979, e poi anche vicario generale ed esorcista diocesano. Novantadue anni, prete da 69, ricorda tutto come se fosse ieri, di quella tragedia che strappo la vita di quasi duemila persone, tra le quali “487 dei nostri bambini” e 18 giovani di Igne, la frazione di Longarone dov’è nato, risparmiata dall’ondata perché più in alto, nella Val Zoldana. E che lo portò via dalla sua prima parrocchia, a Gron di Sospirolo, dov’era arrivato cinque anni prima come prevosto della neonata comunità, e aveva da poco, con l’aiuto dei fedeli, realizzato la nuova chiesa.

Don Pietro Bez oggi, 92 enne ospite del Centro “Papa Luciani” di Santa Giustina

Longarone, da 2700 a 800 abitanti dopo il disastro

Ricorda l’arrivo in un paese che prima del disastro contava 2700 abitanti, e dopo ne erano rimasti solo 800, quelli delle frazioni risparmiate dall’onda e pochi altri superstiti. Oltre al parroco e al cappellano, la notte del 9 ottobre erano morti anche quattro suore dell’asilo, il sacrista, i collaboratori della vita parrocchiale. La chiesa del Settecento era distrutta, insieme alla canonica e alle opere parrocchiali. Ricorda di aver radunato, trovata una stanza che faceva da ufficio parrocchiale in una casa rimasta in piedi a Longarone, “tre o quattro giovani, perché mi aiutassero a smistare la posta, che arrivava a pacchi. Ci chiedevano di mandare indumenti, ma c’erano solo morti; chiedevano di poter adottare bambini rimasti soli, ma per quei pochi superstiti c’erano già i parenti”.

La statua di Maria nel Piave accanto ai corpi delle vittime

Ricorda ancora, don Pietro, che la canonica e la sala parrocchiale sono stati per anni in un prefabbricato, donato dalla Caritas di Bologna e benedetto dal cardinal Giacomo Lercaro, perché la nuova, e molto discussa, chiesa di Santa Maria Immacolata è stata completata solo nel 1982 e consacrata nel 1983, quando don Bez non era più parroco. E infine ricorda il 24 maggio 1964, giorno in cui la statua in legno della Madonna della vecchia chiesa, portata per più di cento chilometri a valle dalle acque del Piave, ha fatto ritorno a Longarone. “Mi sono chiesto come avrà vissuto la Madonna in cielo questo dramma, mentre la sua statua rotolava tra le acque, la notte del 9 ottobre – ha confidato in un’intervista a don Davide Fiocco, direttore del Centro “Papa Luciani” e dell’Ufficio di pastorale della cultura e delle comunicazioni della Diocesi – e ho pensato che abbia detto: ‘Voglio immedesimarmi in quel legno che mi rappresenta, come Gesù nel legno della croce. Voglio vivere in prima persona la stessa sorte dei miei figli di Longarone e dintorni, accompagnarli tra il turbine delle onde e presentare le loro anime a Gesù mio Figlio: Sono tutti figli miei e fratelli tuoi’ ”.

Il ritorno della statua lignea di Santa Maria Immacolata a Longarone, dopo il ritrovamento, il 24 maggio 1964. Don Pietro Bez è davanti a tutti, a sinistra

La domanda: perché non ci hanno avvertiti del pericolo?

A Vatican News, invece, don Bez parla degli incontri con i suoi parrocchiani e i familiari delle vittime, “che se credenti avevano una doppia sofferenza, quella della perdita dei cari” e quella di non capire dove fosse stato Dio durante la catastrofe. Ha trovato la risposta grazie al suo parroco di Igne, don Costante Pampanin, biblista: gli scomparsi e i superstiti si devono considerare come “vittime vicarie, come Gesù sulla croce, l’innocente che paga per i peccati di tutti”. E dai suoi non ha raccolto rancore verso i responsabili della diga, ma solo la domanda “sul perché non siano stati avvertiti, nel pomeriggio di quel mercoledì 9 ottobre 1963, del fatto che ormai la montagna stava cadendo nel lago, in modo da mettersi in salvo”. Ecco tutto il racconto di don Pietro Bez.

Ascolta l’intervista a don Pietro Bez (ex parroco Longarone)

Cosa ricorda della notte della tragedia del Vajont? Dove si trovava e come ha saputo cosa era accaduto?

Celebrata alla messa del mattino dopo, il 10 ottobre, esco dalla chiesa, vedo un gruppetto di persone fuori dal bar che discutono e mi dicono: “Sa cosa è successo?…” Io non ho saputo nient’ altro, perché non avevamo telefoni in casa. Io ero in una casa dei contadini che mi era stata prestata come parroco novello. Per cinque anni sono rimasto in questa casa, a Gron di Sospirolo. A Longarone sono potuto andare soltanto il lunedì successivo, 14, non il dieci perché non avevo notizie. Sapevo che Igne non era stata toccata, quindi da quel lato ero abbastanza tranquillo…

Longarone dopo la tragica ondata caduta dal lago artificiale del Vajont, il 9 ottobre 1963. Foto archivio “L’amico del popolo” di Belluno

Perché lei a Igne aveva i genitori…

Sì, avevo i genitori e i fratelli. Invece avevo dei parenti a Longarone, cugini e zii, che sono stati travolti dall’ondata che è venuta dalla diga. Il 14 ottobre il padrone del bar, che aveva l’unico telefono che esisteva nella frazione, viene a dirmi: “Il vescovo la chiama, che vada subito a Belluno perché devono parlarle”. Io parto col mio motorino, vado a Belluno e il vescovo mi dice: “Abbiamo deciso che tu vai a Longarone”. E ho detto che ero un po’ sorpreso… “Sì, sì, è urgente, bisogna andare subito” mi dice. E io: “Dovrò almeno avvertire mia mamma a Gron”. Mi risponde: “No, No. Tu prendi la tua moto e vai diretto a Longarone. Comincia a trovarti una casa, una stanza, dove poter dare ascolto anche alla gente che verrà a cercarti, che alla tua mamma pensiamo noi”. Allora prendo il motorino, vado verso Ponte nelle Alpi, e lì non facevano passare nessuno, solo i mezzi di soccorso. Allora devo tornare indietro a Belluno, poi faccio il giro verso Agordo. faccio il passo Duran, passo attraverso la Val Zoldana e arrivo ad Igne. Trovo il parroco (don Costante Pampanin, n.d.r) in lacrime perché 18 giovani, ragazzi e ragazze erano periti. I ragazzi erano andati a vedere la partita a Longarone, e le ragazze erano appena uscite dalla filanda, e sono state travolte proprio prima di uscire da Longarone, a Pirago, e salire verso Igne. Col parroco andiamo insieme fino a Pirago, poi lì tutto era chiuso, con macerie e soccorritori che recuperano ancora salme. Abbiamo fatto una preghiera in piedi e siamo tornati indietro. Ma dal giorno dopo, per quasi un mese sono andato a Longarone da Igne, poi ho trovato una stanza dove fare recapito, in modo che la gente sapesse che un parroco c’era ancora.

Lei ha detto che si sentiva angosciato e timoroso per dover rispondere ai tanti “perché” della gente sopravvissuta al dramma…

La perplessità che io avevo non era tanto per il fatto di andare a fare il parroco in una parrocchia dove non c’era più niente, né la chiesa né altro. Ma incontrare e guardare negli occhi i superstiti che sarebbero venuti da me e dover leggere nei loro occhi già quello che sapevo avrei trovato, perché un credente aveva una doppia sofferenza, rispetto a chi non è credente. Con gli altri condivideva la sofferenza della perdita dei propri cari, però aveva anche sempre questo dubbio dentro: “Ma c’è veramente un Dio, un padre, in una catastrofe di questo genere?”. Con più di 450 dei nostri bambini sotto i 15 anni, tutti quanti periti lungo il corso del Maè giù fino al Piave?

Don Pietro Bez pochi giorni dopo il disastro, davanti alle macerie di Longarone

E lei poi ha trovato via via una risposta?

Quello che io ho potuto dire… perché non riuscivo proprio ad accettare, nemmeno quando era il vescovo che lo diceva, l’idea che “Dio nei suoi misteriosi disegni ha permesso…”. Quel “permesso” dicevo, assolutamente non era possibile che Dio che poteva, se non avesse avuto qualche altro scopo, avesse lasciato che gli uomini agissero a modo loro. Perché il peccato ha una doppia faccia, è un’offesa a Dio ed è anche causa di un castigo, di una pena che il peccatore deve accettare. Io avevo ricevuto proprio in quei giorni dal mio parroco di Igne, don Costante, che era biblista, insegnante in seminario, e sono stato anche suo cappellano per un po’ di tempo, una lettera per confortarmi. Che si concludeva così: “Voi consideratevi, sia morti che superstiti, quali vittime vicarie – questo mi è rimasto impresso – come Gesù sulla Croce, l’innocente paga per tutti”. E questo ho detto ai miei parrocchiani. Non erano molti, tra loro, colpiti da qualche perdita nella loro famiglia. Quelli, rimasti senza casa, non potevano più abitare nella parrocchia di Longarone, ma erano a Ponte nelle Alpi, a Belluno e la parrocchia era fatta soltanto della gente che viveva fuori dal perimetro del disastro. Gli abitanti delle tre grandi frazioni che sono state risparmiate dall’ondata che è piombata sulla valle.

Ma questo messaggio l’ha comunque trasmesso ai parenti delle vittime che incontrava?

Sì. Quando hanno saputo che c’era un parroco, allora venivano a incontrarmi da fuori, naturalmente, perché lì non avevano un posto dove abitare. Venivano e io potevo anche parlare con a tu per tu loro. E anche gli altri che erano sopravvissuti, io volevo fare capire che il soffrire è un qualche cosa di connaturale con il cristianesimo. E la croce non è una cosa che dobbiamo allontanare da noi come qualche cosa di negativo…

Cimitero delle Vittime del Vajont, 1996. Don Pietro Bez (il primo a destra) con il vescovo di Belluno-Feltre Pietro Brollo

Oltre alla disperazione, al pianto e anche l’imprecazione verso il destino e forse verso Dio, ha raccolto nei superstiti e nei parenti delle vittime anche la rabbia verso chi aveva costruito la diga e sottovalutato anche il pericolo della frana?

La cosa che tutti quanti erano d’accordo nel contestare è di non essere stati avvertiti quando, almeno nel pomeriggio di quel mercoledì, ormai la montagna stava crollando e che da un momento all’altro piombava nell’acqua sottostante, che era arrivata proprio ormai al massimo dell’altezza e quindi che il pericolo c’era. Contestavano di non essere stati avvertiti di allontanarsi dalle case, perché era ormai imminente il pericolo che la montagna cadesse dentro il lago. Ma non con rabbia o con cattiveria, anche perché quelli che avevano la sofferenza di aver perso qualche familiare erano più interessati ad andare a cercare le salme che erano ancora sotto le macerie. Quando i soldati scavavano, qualcuno era sempre pronto lì, nella casa che era dei propri familiari, per raccogliere i resti che c’erano sotto. Oppure andavano a cercare quelli che erano stati travolti e portati via dall’onda e quindi lungo il fiume. Questo sentimento di rabbia, di vendetta, di odio non lo ho mai notato nelle persone, neanche in quelli che erano i superstiti veri e propri, che avevano perduto gran parte della famiglia. Non hanno mai manifestato questi sentimenti di rancore, ma soltanto hanno accusato i direttori della diga di non essere stati solleciti a salvare la popolazione e che tutti quei morti, 1910 morti, quasi 500 bambini, potevano essere risparmiati.

Cosa le resta del primo giorno a Longarone? Quali sono stati i suoi primi incontri? E anche della Messa della domenica successiva celebrata dal vescovo Muccin, che ricordo ha?

Appena arrivato a Longarone, ho dovuto cercarmi una stanza in periferia rispetto alla parte disastrata. Ho fatto una specie di ufficio dove accoglievo la gente. La Messa la celebravamo in una chiesetta poco lontano, nella frazione di Roggia, che ha fatto da chiesa parrocchiale per due mesi, fino a Natale, quando abbiamo potuto avere la nuova chiesa prefabbricata, che è stata regalata da alcune ditte di Milano. Un capannone in telaio per poter celebrare al coperto la sera di Natale 1963, anche se entrava la neve anche sull’altare. Il vescovo Muccin, che c’era anche a Natale, era venuto a celebrare la Messa la seconda domenica dopo il disastro, davanti al sagrato della vecchia chiesa distrutta. A partecipare a quella Messa, forse non erano neanche i superstiti veri e propri, ma i parrocchiani che abitavano nella periferia del disastro, quindi nelle frazioni, oppure nelle case che erano rimaste in piedi al limite dell’ondata che è caduta giù nel Piave, e poi è risalita dall’altra parte e tornando indietro ha portato via gran parte delle case con dentro anche le persone.

L’inaugurazione del prefabbricato che ha fatto da canonica e sala parrocchiale a Longarone, donato dalla Caritas di Bologna. A sinistra il cardinal Lercaro, dietro di lui a destra il vescovo di Belluno-Feltre Muccin e a sinistra don Pietro Bez

Dopo lei è stato per 16 anni a Longarone come parroco. Ci racconti come ha accompagnato i suoi parrocchiani in quei primi anni dopo la tragedia, come è rinata poi Longarone e cosa è diventata oggi.

Prima di tutto ho cercato costituire una piccola comunità con le persone, rimettendo in piedi l’Azione Cattolica, i chierichetti, la pastorale dei malati, eccetera. Ma la comunità parrocchiale era profondamente cambiata, da quando il paese era stato ricostruito, con le nuove case, di proprietà dei superstiti ma spesso affittate a gente che veniva a lavorare a Longarone, perché nello stesso tempo erano funzionanti anche tutti gli stabilimenti che erano stati distrutti e poi rifatti. C’era molta richiesta di operai, che sono venuti ad abitare e hanno costituito una nuova comunità che si è incontrata con quella dei residenti. Perciò uno dei problemi fondamentali che ho avuto è stato di far capire che i vecchi residenti dovevano accettare favorevolmente l’arrivo di questi nuovi e a questi nuovi dire: “Abbiate pazienza, se delle volte i vecchi residenti pretendono di avere un trattamento diverso da voi, anche se ora siete egualmente cittadini di Longarone e siete anche parrocchiani”. Così abbiamo fatto parecchi incontri tra “nuovi longaronesi” e longaronesi superstiti per fare una comunità. Non è stato facile, perché i longaronesi residenti già da prima pretendevano di essere loro a governare il paese. Ma gli altri, arrivati da poco, dovendo essere inseriti anche loro in questa comunità, pretendevano di avere anche loro un certo ruolo. Pian piano, negli anni, siamo riusciti a creare abbastanza collaborazione tra gli uni e gli altri

Quindi oggi possiamo dire che Longarone è rinata come comunità, anche unita?

Si, certo, ormai sono cresciuti i bambini di allora… Ricordo che in una primavera degli anni Settanta abbiamo fatto una prima comunione con 65 bambini e bambine. Longarone, distrutta, dal 2700 abitanti che aveva prima, era rimasta come parrocchia, con 800 persone. Ma con la ricostruzione la nostra era la parrocchia più giovane della diocesi.

Una celebrazione nel Cimitero delle Vittime del Vajont a Fortogna di Longarone

Il grande cimitero di Fortogna, dove riposano le vittime del Vajont, come lo vivevate? Andavate a fare delle celebrazioni?

C’erano già il parroco di Fortogna e don Mario Moretti, mio confratello di ordinazione sacerdotale che accoglievano i parenti quando portavano lì le salme da seppellire, e li consolavano. Arrivavano delle volte solo dei pezzi di corpi per il riconoscimento…

Sessant’anni dopo, quale lezione si può ancora cogliere da quello che è successo, da questa tragedia, anche per non ripetere più errori del genere?

Anzitutto un ammonimento a chi fa queste cose, chi vuole innovare. Deve avere molto più contatto con la gente del posto, sentire la gente. Ad esempio, nel mio caso, a Longarone, è stata costruita una chiesa che la gente, me compreso, non aveva accettato. Lì si è forzata la decisione e non siamo stati accontentati. Una chiesa che è più un monumento in ricordo delle vittime e questo va bene, ma come chiesa parrocchiale si stenta a affezionarsi. Perché sembra qualche cosa d’altro, ma non una chiesa.

Ancora don Pietro Bez davanti ai resti della chiesa di Santa Maria Immacolata a Longarone

E lei sei era opposto alla costruzione di questa chiesa che diventava più un memoriale, che una chiesa da vivere?

Se fosse stata un santuario a ricordo delle vittime poteva anche andare, ma non come chiesa parrocchiale. Io l’ho anche scritto, su uno dei miei libretti che ogni tanto stampo, e con l’ultimo siamo già al sesto. Un solo esempio: il progetto iniziale dell’architetto (Giovanni Michelucci, n.d.r) voleva che la nuova chiesa poggiasse su quello che era il pavimento della vecchia.  Ma dato che tutta l’area attorno era stata innalzata, e il paese è stato ricostruito a un livello più alto, per andare in chiesa, avendo scelto che fosse lo stesso pavimento della vecchia chiesa, dove poi hanno messo tutti i ruderi raccolti, si sarebbe dovuta scendere una gradinata, per entrare dentro una chiesa che era sotterranea, praticamente, in riferimento alla piazza. E abbiamo protestato. Abbiamo detto: “No, non è possibile. Pensi a un funerale: per entrare in chiesa col feretro dobbiamo scendere giù. E la gente che deve entrare in chiesa e uscire deve sempre fare questa scalinata”. Così alla fine il livello della chiesa attuale è più alto, alla stessa altezza della piazza. E va bene così.

Alle celebrazioni del 9 ottobre Mattarella e il patriarca di Venezia

Il programma della giornata del 60. mo anniversario del Vajont, lunedì 9 ottobre, prevede alle 9 messe in suffragio nelle chiese parrocchiali di Erto e Casso, alle 9.30 la deposizione di una corona in memoria delle vittime sul sagrato della chiesa di Pirago. Alle 11, nel Cimitero delle vittime del Vajont, a Fortogna di Longarone, una cerimonia commemorativa, con omaggio alle vittime, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Poi il capo di Stato, attorno alle 12, si sposterà nello spiazzo della diga del Vajont per gli interventi istituzionali della commemorazione civile, presente anche il presidente della Regione Veneto Luca Zaia. Alle 14.30, nel Centro culturale di Longarone, si tiene il convegno di apertura della Settimana nazionale della Protezione Civile, sul tema “Linguaggi e saperi a confronto sessant’anni dopo la catastrofe”. Nel pomeriggio, alle 16, la Santa Messa nel Cimitero monumentale di Fortogna, in suffragio delle vittime del 9 ottobre 1963, celebrata dal patriarca di Venezia Francesco Moraglia e dal vescovo di Belluno-Feltre Renato Marangoni. Infine la sera, dalle 21, una veglia di preghiera nella chiesa di Pirago, e alle 22.39, quando la frana si è staccata dal monte Toc, in quella di Longarone, il rintocco della campana.

La diga del Vajont e il monte Toc, oggi