Antonella Palermo – Città del Vaticano
Alla luce delle drammatiche evoluzioni della guerra in Ucraina, Don Sergio Mercanzin, fondatore del Centro Russia Ecumenica, sottolinea l’importanza che si levi un forte appello di pace a livello ecumenico:
Come guarda a questa guerra?
Devo confessare uno strazio personale particolare. Sono cinquant’anni che mi dedico ai popoli slavi, ho nel cuore sia i russi che gli ucraini. Ho tanti amici in Russia e tanti amici in Ucraina. Vederli nemici per me è una angoscia quotidiana. Sono due popoli che amo a cui ho dedicato tutto il mio sacerdozio. E’ uno scenario apocalittico che non mi sarei mai e mai aspettato. Peraltro ho sempre pensato allo sfaldamento dell’Urss come a un miracolo della storia. Quindici repubbliche si erano separate senza morti, cosa che sarebbe potuta succedere. Adesso, invece, vediamo, a distanza di tanti anni, questa guerra tra Paesi fratelli, e che sono fratelli non solo per per motivi etnici e linguistici, ma anche per motivi religiosi.
Che scenari prevede?
Purtroppo, questa situazione può avere uno sbocco ancora peggiore. Io mi auguro invece che ci possa essere una svolta positiva attraverso negoziati per una pace quanto prima.
Quanto questa guerra sta minando l’unità dei cristiani?
Questa guerra non gioverà all’unità. Qui vediamo in contrasto non tanto una confessione da un’altra, ma tra ortodossi. Ortodossi sono i russi e ortodossi sono gli ucraini, sebbene qui ci sia una minoranza cattolica di rito orientale e una di rito latino. La maggioranza è passata dal Patriarcato di Russia a quello di Costantinopoli. Ciò ha rinfocolato un’assurda concorrenza che tra cristiani non dovrebbe mai e mai esserci.
Potrebbero le voci ecclesiali, unitamente a quella del Papa, ricomporre le fratture della guerra?
Io penso che oggi la voce del Papa, insieme a quella del Patriarca di Mosca, insieme a quella dei diversi gerarchi della Chiesa ortodossa in Ucraina, potrebbero associarsi e davvero chiedere e, addirittura, pretendere che si facciano dei negoziati veri e sinceri perché si possa arrivare presto alla pace. In particolare, ritengo che il Papa e il Patriarca di Mosca possano fare veramente un appello urgente e drammatico a Putin perché cessi le operazioni belliche. Non sarebbe altro che mettere in pratica quell’accordo importante che nel 2016 il Papa ha firmato insieme al Patriarca Kirill di difendere insieme i cristiani nel Medio Oriente. Adesso succede una situazione paradossale: che si massacrano i cristiani ortodossi in Ucraina.
Lei è in contatto con persone che in Russia stanno vivendo un dissidio interiore perché non appoggiano la guerra ma che non possono esporsi? Cosa le raccontano?
In Russia io ho vissuto il dissenso sovietico, una epopea meravigliosa, da parte di persone che rischiavano la vita per opporsi a quel regime. Adesso ci sono persone che, con altrettanto coraggio, si oppongono a questo clima di guerra. Stamattina ho incontrato un giovane giornalista di guerra, nato da genitori russi ma negli Usa, che ha detto di prendersi insulti e che la gente facilmente confonde il popolo con il regime che hanno. E poi ho incontrato un prete ucraino che mi diceva: tutti i russi che incontro, sono tanti, mi chiedono perdono per questa guerra scatenata contro il mio popolo. Secondo me, che vinca o perda, per Putin è un suicidio politico, perché se anche ha delle ragioni a opporsi all’espansione della Nato, ma credo che siamo all’inizio della fine, perché è andato oltre qualsiasi ragionevolezza. Per esempio, si sono incontrati il Nunzio del Papa a Mosca e il Patriarca: spero proprio che si arrivi a ciò che ipotizzavo prima, che questa doppia voce del Papa e del Patriarca di Mosca convinca Putin a indietreggiare. Questo potrebbe essere una via religiosa alla pace e alla salvezza del mondo.
Dalla base si può scardinare questa volontà di Putin di andare avanti?
Il popolo può fare molto ed è molto coraggioso. Tra l’altro chi rappresenta il massimo del coraggio sono le donne. Diceva un grande scrittore russo che la Russia cammina sulle gambe delle donne. Madri di giovani che rischiano la vita per fare la guerra a un popolo amico.