Salvatore Cernuzio – Budapest
Tatiana ha 31 anni ma dice di sentirsene addosso il doppio. Non chiude occhio da quattro giorni, da quando, cioè, ha deciso di fuggire dalla campagna ucraina di Kryvyi Rig per raggiungere in treno Leopoli e, da lì, Budapest. È arrivata in Ungheria questa mattina, poche ore prima che nel suo villaggio iniziassero a piovere le bombe. Ha lasciato una mucca, dei polli, delle capre e tutto il bestiame allevato con i genitori per decenni. Si è portata solo un gatto che nasconde in un cappuccio: “È cieco, i bambini mi hanno supplicato di portare via almeno lui perché gli dispiaceva”.
I bambini… Ce ne sono sette che giocano accanto a Tatiana e al cumulo di zaini, borsoni, buste, dove in questo momento è racchiusa tutta la loro vita. Due sono suoi figli, due i nipoti, tre i fratelli più piccoli. Con la madre e la sorella hanno deciso di andarsene di notte e raggiungere alcuni parenti in Italia. Da oltre cinque ore sono accovacciate in un angolo della stazione di Kelety, punto di partenza per i viaggi internazionali, prima tappa del viaggio in Ungheria del cardinale Michael Czerny, prefetto ad interim del Dicastero per lo Sviluppo umano integrale.
Inizia la missione
Il porporato è partito questa mattina da Roma Ciampino per compiere la missione, a nome del Papa e “di tutto il popolo cristiano”, di vicinanza e sostegno a coloro che sono stati costretti a lasciare la propria terra e la propria casa per la cruda violenza della guerra. Circa 2000-2500 al giorno è il numero di quelli arrivati a Kelety nel giro di una settimana, accolti dalla Caritas ungherese che con le altre organizzazioni (tra cui la Caritas ecumenica e i protestanti) si sono divise le cinque frontiere con l’Ucraina per distribuire meglio gli aiuti. Il governo sembra aver offerto garanzie di sostentamento per almeno tre mesi, ma i profughi non vogliono restare per troppo tempo in Ungheria: la Polonia, l’Italia e soprattutto la Germania sono le mete più ambite, per opportunità di lavoro o perché risiedono dei parenti. “L’Ungheria è solo un ponte”, commenta un sacerdote.
Mamme e bambini
Czerny, in talare, berretta rossa e con la croce pettorale realizzata con il legno di un barcone di Lampedusa (molti, incuriositi, gli chiedono il significato), si dirige intorno alle 12 in questa stazione dell’antica Pest, che già nel 2015 aveva ospitato la grande ondata di migranti fuggiti dalla Siria. Al momento del suo arrivo, i volontari sono indaffarati a tagliare cornetti salati per riempirli di prosciutto o salame e distribuirli per il pranzo. Ai bambini sono offerte invece merendine e barrette di cioccolata, insieme a coca cola e succhi di frutta. Li consumano a metà, poi li lasciano alle mamme, perché, imbacuccati nei piumini di taglie più grandi, vogliono giocare facendo l’acchiapparella o le scivolate sul pavimento in marmo. A loro modo si divertono, mentre le madri li guardano con la fronte corrugata. A turno si lanciano sugli stand dove, negli scatoloni, si accumulano giocattoli, pannolini, vestiti, medicine, acqua, cibo a lunga conservazione.
Un accompagnamento personale
Non ci sono limiti di quantità, né naturalmente tariffe. “Chi vuole prende ciò di cui ha bisogno”, spiega al cardinale il diacono Gabor Csorba, responsabile della Caritas che coordina gli aiuti in stazione. A più riprese afferma che il lavoro per i profughi non si limita ai generi di conforto, ma va ben oltre: “I profughi che arrivano col treno hanno superato i controlli burocratici e hanno ricevuto una visita medica gratuita per il Covid e altre malattie. Una volta qui, noi prendiamo contatto coi sindaci dei diversi quartieri (ogni quartiere a Budapest ha un proprio sindaco, ndr) per procurargli vitto e alloggio e con le grandi aziende per trovargli un lavoro. Sono più di mille, noi meno di quindici ma cerchiamo di organizzare al meglio l’accoglienza e accompagnarli personalmente”.
“La guerra di tutti”
“Grazie del vostro lavoro”, incoraggia Czerny. Parole che ripete anche a una volontaria Caritas che gli chiede una benedizione per lei e i suoi compagni: “La benedizione del Papa”. “Ma lui è il Papa?”, domanda un uomo di passaggio, pure lui profugo dell’Ucraina (non vuole dire da dove), arrivato a Budapest poche ore fa. Si ferma a parlare con il cardinale, dice che ha bisogno di fargli delle domande; chiede del viaggio – l’itinerario, il significato – ma soprattutto se questa guerra è la guerra di tutti o una guerra a scapito di alcuni popoli e minoranze. “Tutto il mondo è coinvolto”, risponde Czerny. In tanti si avvicinano per salutare, per scattare una foto o per avanzare qualche richiesta. Molti osservano ma non si muovono dai loro posti, soprattutto quelli in fila alle macchinette per i biglietti: saranno una sessantina e sono in attesa da un paio d’ore.
Gruppi da Asia e Africa
Il cardinale si dirige poi a salutare un gruppo di giovani di colore. Si chiamano Isy, Christopher, Joyce, hanno tra i 19 e i 22 anni e vengono dalla Nigeria. Sono fuggiti da Ternopil, dove studiavano medicina. Nei loro occhi e nei loro racconti non c’è la disperazione di chi ha visto la vita sgretolarsi: quella in Ucraina era una fase di passaggio e hanno una famiglia e una terra che li attende. Lo stesso lo dicono anche i gruppi di cinesi e vietnamiti, sistemati tutti vicini in un angolo poco prima dei binari, esibendo le loro bandiere. Sono usciti senza intoppi tramite i corridoi umanitari, non hanno avuto particolari intoppi alle frontiere. Tutti, però, sono in un evidente stato di choc. “Voglio solo tornare a casa”, dice Joyce al cardinale. Che le stringe le mani e risponde: “Good luck. Dio ti accompagna e il Papa vi è vicino”.
Nel pomeriggio, Czerny si recherà nella Chiesa di San Pietro Canisio per visitare l’opera di assistenza gestita dalla Comunità di Sant’Egidio.