di Gianfranco Ravasi
È difficile resistere alla memoria autobiografica: giunsi a Roma, non ancora ventenne, per iniziare i miei studi in Teologia proprio nel pomeriggio dell’11 ottobre 1962. Ero, quindi, anch’io presente quella sera nell’immensa folla che, in piazza San Pietro, ascoltava l’ormai celebre “discorso della luna” di san Giovanni XXIII, così come sono stato tra coloro che, tre anni dopo, l’8 dicembre 1965 assistevano alla solenne conclusione dell’assise conciliare con san Paolo VI, per non parlare poi delle varie volte in cui – attraverso l’autorizzazione di un vescovo – avevo partecipato da spettatore ad alcune sessioni in San Pietro, seguendo gli interventi dei padri conciliari. Il concilio Vaticano II, però, non è intrecciato con la mia vita solo per ragioni biografiche. Lo è per un dato più radicale che è condiviso anche da tutti coloro che non misero mai piede a Roma in quegli anni, eppure furono in modo benefico “contaminati” da quell’evento, così come lo è stata tutta la Chiesa nei decenni successivi.
Fin dall’annuncio dell’indizione da parte di san Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 nella basilica di San Paolo, e poi durante tutto il concilio e i sessant’anni che abbiamo alle spalle, si è infatti respirata e vissuta un’atmosfera intensa e unica, un fremito che paradossalmente ha fatto guardare la Chiesa lungo due direzioni antitetiche eppure complementari. Da un lato, infatti, ci si proiettava verso il mondo in evoluzione e, quindi, verso orizzonti futuri, facendo risuonare quella parola allora un po’ emozionante, “aggiornamento”. D’altro lato, si voleva liberare dal manto un po’ polveroso di una storia secolare il cuore pulsante del Vangelo, la vitalità delle origini cristiane, la matrice dottrinale ecclesiale profonda, compiendo così una sorta di sguardo retrospettivo.
Proprio per quest’ultimo aspetto alcuni padri considerati “progressisti” ribattevano ai colleghi obiettori di essere loro stessi i veri servatores, i “conservatori” dello spirito genuino radicale della Tradizione, mentre gli oppositori in ultima analisi si rivelavano novatores, sostenendo tesi e prassi posteriori. Il clima di riscoperta delle sorgenti cristiane come autentica “novità” era vissuto allora in modo forte, talora fin frenetico: si spiegano così anche qualche degenerazione successiva e il parallelo allentarsi di quella tensione spirituale. Tuttavia, penso che questa eredità di indole generale non si sia mai spenta del tutto, tant’è vero che ancor oggi l’aggettivo “conciliare” suscita sempre un palpito, una vibrazione, una scossa interiore, un appello a vivere più efficacemente il cristianesimo.
Ebbene, un filo che si dipana non solo in tutti i documenti conciliari, ma che è divenuto un raggio solare che ha illuminato fino ai nostri giorni tutta la Chiesa, è stato quello della Parola di Dio. Essa ha avuto la sua stella polare proprio nella costituzione significativamente denominata Dei Verbum. Inizialmente si era ipotizzato un titolo più riduttivo, De Sacra Scriptura, rimandando esclusivamente alla Bibbia. Poi, però, si è marcato il fatto che la parola di Dio precede ed eccede la Sacra Scrittura: quest’ultima, infatti, è l’attestazione oggettiva della Rivelazione di Dio che però echeggia già nella creazione e nella storia e che si effonde attraverso lo Spirito Santo illuminando la Scrittura nella Tradizione, nella quale si compie quanto suggestivamente dichiarava san Gregorio Magno in una sua omelia su Ezechiele: Scriptura cum legente crescit, «la Scrittura cresce con chi la legge». Ecco, allora, il titolo finale De divina Revelatione.
Non per nulla, volendo riportare ancora nel centro vitale della Chiesa la Parola di Dio a distanza di decenni da quel documento conciliare, Benedetto xvi a suggello del Sinodo del 2008 ha posto come incipit della sua esortazione apostolica post-sinodale la formula Verbum Domini. La parola divina, infatti, col concilio è brillata in modo netto nella liturgia, nella catechesi, nella spiritualità (la lectio divina!), nella pastorale, nella teologia, nella cultura. A quest’ultimo proposito, ricordo in quegli anni l’ardua transizione che i docenti dell’università Gregoriana avevano dovuto compiere, rendendo i loro corsi sempre più modellati sulla Bibbia come sorgente, superando l’uso secondo cui era la riflessione speculativa a convocare i passi biblici a supporto delle tesi già elaborate. Un’inversione metodologica che ora è normale nei trattati teologici ma che allora sembrava una rivoluzione, anche se altro non era che un ritorno alle origini. I Padri della Chiesa, infatti, come è stato fatto notare da molti, non parlavano (o scrivevano) della Bibbia, ma parlavano la Bibbia.
Imponente è la bibliografia che ha approfondito i contenuti della Dei Verbum, approvata dall’assise conciliare il 18 novembre 1965 con 2.350 votanti e soli 6 voti contrari e suggellata da san Paolo VI. Noi ora evocheremo in modo soltanto allusivo una triade di fili tematici, per altro noti e perlustrati con ampiezza. Il primo filo conduttore è quello del nesso tra Scrittura e Tradizione, espresso nei capitoli i e ii attraverso la formula latina Verbum Dei scriptum vel traditum. Lasciamo voce allo stesso concilio: «La sacra Tradizione e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine» (n. 9).
Le Scritture sono, quindi, Parola di Dio fondamentale e radicale, ma non tutta la Parola di Dio. Esse cristallizzano nello scritto quella Parola ma non come un deposito inerte, bensì come potenza di vita che si allarga nella Parola divina trasmessa nella Chiesa, appunto il Verbum traditum, ossia la Tradizione illuminata dallo «Spirito di verità» promesso da Gesù Cristo. Il magistero ecclesiale «non è superiore alla Parola di Dio, ma ad essa serve, insegnando ciò che è stato trasmesso», sostenuto dallo Spirito Santo. In sintesi, Scrittura, Tradizione e magistero sono interconnessi in un legame vivente e in un’unica finalità salvifica.
Il secondo filo tematico, sviluppato dal III al V capitolo, unisce due capisaldi della Teologia della Parola di Dio che hanno sollecitato nei secoli una variegata molteplicità di riflessioni: l’ispirazione e l’ermeneutica o interpretazione. La complessità dei temi ci permette di suggerire solo uno spunto essenziale. Da un lato, contro ogni tentazione semplificatoria si ribadisce che la compresenza dell’autore divino e di quello umano rivela la qualità autentica dell’ispirazione analoga all’Incarnazione. Essa comporta una Parola suprema e trascendente che si manifesta in parole concrete e storiche.
D’altro lato, proprio per questa armonica duplicità, l’interpretazione conveniente della Parola sacra deve tener conto di una strumentazione sia teologica, sia storico-critica (ad esempio, i generi letterari) che esorcizzi ogni letteralismo fondamentalista, ma anche ogni libera e vaga applicazione. Emerge, così, la “verità” positiva che la Parola di Dio vuole offrire, evitando la terminologia del passato di taglio negativo che parlava di “inerranza”. Si afferma in tal modo che «i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità, che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere» (n. 11).
Affermazione importante per spegnere il conflitto tra fede e scienza e ogni “caso Galileo”. Costui giustamente scriveva all’abate benedettino pisano Benedetto Castelli che «l’autorità dello Spirito Santo ha avuto di mira a persuadere agli uomini su quelle verità che, essendo necessarie alla nostra salvezza e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo essere conosciute se non per bocca dello stesso Spirito Santo». È ciò che già aveva intuito sant’Agostino quando affermava che «non si legge nel Vangelo che Gesù avrebbe detto: Vi manderò il Paraclito che vi insegnerà come vanno il sole e la luna. Voleva formare dei cristiani, non dei matematici». La Parola di Dio proclama la verità salvifica e non quella scientifica.
Infine il terzo filo si snoda nel capitolo VI e intreccia Bibbia e vita, soprattutto nell’ambito dell’esistenza credente. Infatti, «per i figli della Chiesa la Parola di Dio dev’essere saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale» (n. 21). In questa luce, tra i vari orientamenti pastorali offerti dalla Dei Verbum sottolineiamo l’appello allo studio e alla lettura della Bibbia perché essa sia anima della predicazione pastorale, della catechesi, dell’omelia liturgica, della teologia e della preghiera, così che «possa svolgersi un dialogo tra Dio e uomo».
Questa considerazione ci conduce spontaneamente a una riflessione conclusiva che affidiamo a una scena curiosa e a due personaggi. Vladimir: «Hai mai letto la Bibbia?». Estragon: «La Bibbia?… devo averci dato un’occhiata». Le battute che si scambiano i due vagabondi protagonisti del celebre dramma di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952) esprimono un atteggiamento comune a molti: un’occhiata bisogna pur darla a questo testo così acclamato ma, come accade per i classici, poco letto. Persino per i cattolici, in epoca preconciliare, il poeta francese Paul Claudel non esitava a dire ironicamente che essi nutrono nei confronti della Bibbia un grande rispetto e questo rispetto lo dimostrano standone il più lontani possibile.
Bisogna riconoscere che il concilio Vaticano II ha fatto sì che questa distanza si accorciasse e la comunità ecclesiale si riappropriasse della Sacra Scrittura nella vita della Chiesa. Anzi, sempre più, anche in ambito “laico”, si riconosce la necessità di avere tra le mani questo “grande codice” della cultura occidentale per poterne decifrare e ammirare le produzioni più alte nel campo delle arti e persino in certi aspetti della nostra quotidianità, per non parlare poi dell’incidenza che la Sacra Scrittura ha avuto sull’orizzonte dell’ethos e dell’etica comune (si pensi solo al rilievo del Decalogo).
Certo, il messaggio evangelico è unico in ogni tempo, è lo stesso ieri, oggi e sempre, come afferma per il Cristo la Lettera agli Ebrei (13, 8). Esso, però, deve continuamente incarnarsi nelle mutevoli coordinate storiche entro le quali siamo innestati. Questa “contemporaneità” permanente di Cristo e della sua Parola è il grande monito costante del concilio Vaticano II. Un po’ come affermava il filosofo ottocentesco danese Soeren Kierkegaard: «L’unico rapporto che si può avere con Cristo è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette solo di ammirarlo». Il Vivente, invece, com’è il Cristo risorto, «mi costringe a giudicare la mia vita in senso definitivo». Ed è ciò che il concilio Vaticano II ha ribadito con passione e convinzione a tutta la Chiesa per l’intera Sacra Scrittura e per la Tradizione proprio attraverso la Dei Verbum.
In questa linea e in quello spirito ecumenico che è stato rinvigorito in modo essenziale proprio dal documento conciliare, lasciamo l’ultima parola a un appello forte e suggestivo del pastore Dietrich Bonhoeffer, testimone di fede e di amore per la Parola divina fino alla meta estrema del martirio sotto l’infamia nazista: «Facciamo silenzio prima di ascoltare la Parola perché i nostri pensieri siano già rivolti alla Parola. Facciamo silenzio dopo l’ascolto della Parola perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi. Facciamo silenzio alla mattina presto perché Dio deve avere la prima parola. Facciamo silenzio prima di coricarci perché l’ultima parola appartiene a Dio. Facciamo silenzio solo per amore della Parola».