Il vescovo di Rumbek ha camminato con i suoi fedeli e quelli di altre confessioni per accogliere Francesco. “La Chiesa sia vicina agli ultimi”
Francesca Sabatinelli – Inviata a Giuba
Il Papa in Sud Sudan ha benedetto una terra con la pace, che in questo Paese nasce da cuori disarmati da rabbia e da violenza. Ha parlato ad un popolo che ha bisogno di fatti e dove la sofferenza degli ultimi sta avviando un processo di nascita. Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, racconta i giorni della visita di Francesco che lui ha vissuto tutti da vicino e molto intensamente. A cominciare dal viaggio che lo ha portato nella capitale, in un pellegrinaggio di pace, Walking for peace, a piedi per circa 200 chilometri, con un gruppo di 60 giovani di diversi clan e diversa fede, cattolici e protestanti. Partiti dalla capitale dello Stato dei Laghi, il 25 gennaio, hanno camminato per circa venti chilometri al giorno, per nove giorni, con tappe in diverse comunità cristiane lungo la via, con momenti di preghiera e di condivisione e culminati con l’arrivo a Giuba il 2 febbraio e con l’incontro con Francesco.
Monsignor Carlassare, può raccontare questi giorni del Papa in Sud Sudan? Quali sono stati i momenti che più l’hanno colpita?
L’arrivo per me è stato un momento molto commovente. Ero in fila con gli altri vescovi, eravamo tutti in attesa, e quando la sedia a rotelle del Papa ha toccato terra ho sentito da lontano le grida dalle persone che lo avevano già visto e io mi sono sentito molto emozionato nel pensare che il Santo Padre, dopo tanto tempo che aveva desiderato di venire in questo Paese, che ci ha portato nelle sue preghiere, e che spesso ha menzionato il Sud Sudan nei suoi discorsi, era finalmente lì con noi. Quando un visitatore arriva, lo fa sempre con la benedizione, questa è la cultura africana, e quindi ho pensato: “Eh, Papa Francesco, adesso sei qui per benedire questa terra, che sarà benedetta con la pace”, ma non una pace che viene dalle nuvole, ma una pace che nasce dal cuore di persone che sono trasformate, cambiate dentro, con un cuore finalmente disarmato da ogni rabbia che porta violenza, e pronta al dialogo, alla preghiera, all’intercessione, alla comunione, alla fraternità e anche al perdono. Poi direi che altro momento è stato il messaggio che ha fatto al corpo diplomatico, molto molto forte e molto diretto: non più parole, ma fatti! Che penso sia quello di cui il Sud Sudan ha più bisogno, richiamando poi questa immagine del Nilo, che è un modo molto africano per capire la realtà, e vedere che la liberazione non è stata compiuta con la rivoluzione fatta da movimenti militari o politici, ma che c’è una liberazione che arriva come dono da una sorgente, una sorgente d’acqua, una sorgente anche che porta trasformazione, che è Dio, la parola di Dio, a cui tutti attingiamo e che ci fa tutti unire intorno a questo fiume che ci fa vivere e che ci fa essere popolo, che ci fa superare le divisioni, che ci fa essere in solidarietà l’uno con l’altro. Poi, per me, è stato molto emozionante l’incontro con lui in cattedrale, dove ha parlato ai vescovi, ai religiosi, ai sacerdoti e ai seminaristi, emozionante soprattutto per il momento che abbiamo vissuto al termine di quella celebrazione, quando ha dato questo spazio molto bello ai giovani di Rumbek che hanno camminato per 9 giorni per venire a fargli visita, e lui, con grande semplicità, è venuto, ha salutato i ragazzi, e ha detto ‘grazie della vostra testimonianza’, di giovani che hanno saputo camminare unendosi, nonostante l’appartenenza a tribù diverse, a clan diversi, a territori diversi, e non si conoscessero tra di loro. Hanno camminato insieme per 9 giorni e hanno fatto fraternità. I primi giorni vedevo che non parlavano tra loro, che facevano i loro piccoli gruppetti, alla fine siamo arrivati a Giuba con serenità, gioia e comunione: il gruppo si era finalmente unificato. Questa è la testimonianza che i giovani possono dare a questo Paese, per troppo tempo hanno marciato con il fucile in spalla e invece adesso abbiamo dei giovani che, se ricevano la spinta giusta, sanno anche camminare, in questo cammino nuovo, rinnovato, che è la pace. Poi sono stati momenti molto belli nella Freedom Hall, l’incontro con gli sfollati. Lì ho pianto, e davvero ho pianto, perché abbiamo tante persone che hanno perso le loro case, la sicurezza, la fiducia di poter vivere nel proprio Paese da liberi cittadini. Il video, prodotto del Cuamm, (mostrato durante l’evento e girato nei campi sfollati del Sud Sudan ndr) è stato molto toccante e così il messaggio dei bambini che hanno parlato al Papa. Vedo che da questa gente che soffre si sta avviando un processo di nascita. Il cambiamento in Sud Sudan non arriverà dalle élite, ma da queste persone che hanno sofferto tanto e che sapranno dare un una visione nuova al Paese. Infine, direi, la celebrazione della messa (domenica 5 febbraio, nel Mausoleo John Garang ndr), molto partecipata, molto vivace, con le parole del Papa sulla luce del mondo e il sale della terra che ci insegna che questa grazia che riceviamo da Dio è una grazia a cui dobbiamo partecipare e quindi diventare anche noi sale e luce per gli altri.
Il vescovo di Rumbek che cammina con i suoi fedeli e compie un pellegrinaggio a piedi fino Giuba, è una notizia che ha circolato molto nel Paese, come mai è così entrato nel cuore delle persone e ha scosso così tanto questo gesto?
Il Sud Sudan ha una storia di sfollati di gente che cammina, che percorre il Paese da un lato all’altro alla ricerca di sicurezza. Pensiamo durante il conflitto quante persone hanno dovuto abbandonare la propria casa e camminare giorni e giorni per chilometri per raggiungere un chissà cosa, un chissà dove, per la sicurezza. Quindi, vedere questo gruppo che cammina, che lo fa con una direzione, verso Giuba, dove molte persone comunque arriveranno per una ragione comune che è quella della visita del Papa, io penso che questo abbia dato la visione di un nuovo Sud Sudan, formato da persone rinnovate, che si sono riconciliate con il passato, con la storia di violenza che purtroppo non va dimenticata, ma va trasformata. Nuove vie devono essere riaperte per dare speranza alla popolazione, e questi giovani che hanno camminato sono stati una speranza per tutto il Sud Sudan, lo credo veramente.
Gli sfollati, coloro che non hanno assolutamente nulla, coloro che non avrebbero, paradossalmente, quasi neanche il diritto di avere speranza, incontrando Francesco alla Freedom Hall hanno invece dimostrato di credere fortemente proprio nella speranza, di essere coloro che vogliono davvero iniziare a costruirla, non per cambiare la loro propria situazione, ma per il Paese intero, per l’unità del Popolo. È qualcosa di quasi incomprensibile, ma che il Papa ha confermato …
Sì, è incomprensibile quanto la fede, e quindi penso che quanto detto al termine del Sinodo africano sia proprio vero, cioè che l’Africa è il polmone spirituale del mondo. Lo dimostra questa fede grande che i poveri, coloro che sono più emarginati, ripongono in Dio e in una umanità possibile, che è la solidarietà, che è l’unico modo che permette ancora a sfollati, rifugiati e persone che hanno perso tutto, di sopravvivere, quella solidarietà ancora possibile: la solidarietà degli ultimi, a cui come Chiesa dobbiamo essere particolarmente vicini.