Il cardinale predicatore pontificio ha tenuto la terza meditazione di Quaresima, alla presenza del Papa e della Curia Romana, riflettendo sui dei misteri della fede e sull’approccio di chi li studia: il popolo di Dio non ha bisogno di concetti comprensibili solo dagli “iniziati”
L’Osservatore Romano
La notizia più bella che la Chiesa ha il compito di far risuonare nel mondo, quella che «ogni cuore umano attende di sentire», è: «Dio ti ama!». Lo ha sottolineato il cardinale Raniero Cantalamessa durante la terza predica di Quaresima, svoltasi venerdì mattina, 17 marzo, nell’Aula Paolo VI, alla presenza di Papa Francesco.
Secondo il predicatore della Casa Pontificia, questa certezza è in grado di «scardinare e sostituire quella che ci portiamo dentro da sempre: “Dio ti giudica!”». La solenne affermazione di Giovanni «Dio è amore» deve perciò «accompagnare, come una nota di fondo, ogni annuncio cristiano, anche quando dovrà ricordare, come fa il Vangelo, le esigenze pratiche di questo amore».
Centrata tutta su Dio, la terza meditazione del porporato cappuccino è partita dall’assunto che la teologia «non può rimanere estranea alla realtà del Sinodo, come non può rimanere estranea a ogni altro momento della vita della Chiesa». Senza di essa, infatti, «la fede diventerebbe facilmente morta ripetizione; mancherebbe dello strumento principale per la sua inculturazione».
Tuttavia, per assolvere il suo compito la teologia ha bisogno essa stessa «di un rinnovamento profondo». Quella di cui il popolo di Dio necessita «è una teologia che non parli di Dio sempre e soltanto “in terza persona”, con categorie mutuate spesso dal sistema filosofico del momento, incomprensibili fuori della ristretta cerchia degli “iniziati”». È scritto che «il Verbo si è fatto carne» ma in teologia «spesso il Verbo si è fatto solo idea» ha commentato Cantalamessa citando Karl Barth, il quale «auspicava l’avvento di una teologia “capace di essere predicata”».
Del resto, non c’è «alcun contenuto della fede, per quanto elevato, che non possa essere reso comprensibile a ogni intelligenza aperta alla verità». E se c’è una cosa che si può «imparare dai padri della Chiesa, è che si può essere profondi senza essere oscuri». Anche perché spesso viene rivelato ai «piccoli» quello che rimane nascosto «ai sapienti e gli intelligenti». Da qui l’interrogativo posto dal predicatore: dove trovare una teologia che faccia leva sullo Spirito Santo più che «su categorie di sapienza umana, per conoscere “le profondità di Dio”»?.
Il cardinale ha fatto notare che, di solito, quando ci si rivolge al Paraclito, lo si invoca «come luce che ci illumina sulle situazioni e ci suggerisce le soluzioni giuste», e non come «amore». Eppure «è questa la prima e più essenziale operazione dello Spirito di cui la Chiesa ha bisogno». Solo la carità, infatti, edifica, mentre «la conoscenza, anche quella teologica, giuridica ed ecclesiastica, spesso non fa che gonfiare e dividere». Del resto, se «siamo così ansiosi di conoscere, e oggi, così eccitati alla prospettiva dell’intelligenza artificiale, e così poco, invece, preoccupati di amare», è proprio perché «la conoscenza si traduce in potere» e «l’amore invece in servizio».
Il predicatore ha poi fatto riferimento ai tre grandi misteri della fede: la Trinità, l’Incarnazione, la Passione. Riguardo al primo, ha osservato che «l’unità di Dio» a cui credono i cristiani non è «matematica e numerica, ma d’amore e di comunione». Il Padre è infatti “atto puro” e questo «è un atto d’amore, dal quale emergono, simultaneamente e ab aeterno, un amante, un amato e l’amore che li unisce». Il mistero dei misteri, ha fatto notare il porporato, «non è, a pensarci bene, la Trinità, ma capire cos’è in realtà l’amore». Essendo «l’essenza stessa di Dio, non ci sarà dato di capire appieno cos’è l’amore neppure nella vita eterna. Ci sarà dato, tuttavia, qualcosa di meglio che conoscerlo, e cioè possederlo e saziarcene eternamente»: d’altronde, non si può «abbracciare l’oceano, ma vi si può entrare dentro».
Riguardo poi all’Incarnazione del Verbo», il cardinale ha affermato che, alla luce della rivelazione di Dio come amore, anche questo mistero «acquista una nuova dimensione». Infatti, il Padre «decide l’incarnazione del Verbo non perché vuole avere fuori di sé qualcuno che lo ami in modo degno di sé, ma perché vuole avere fuori di sé qualcuno da amare in modo degno di sé»: non per «ricevere amore, ma per effonderlo». Infatti, presentando Gesù al mondo «nel Battesimo e nella Trasfigurazione, il Padre celeste dice: “Questi è il Figlio mio, l’amato”; non dice: “l’amante”, ma “l’amato”».
Dio, dunque, «non ha bisogno di essere amato per esistere; ha bisogno soltanto di amare». Questo è ciò che «garantisce il ruolo del Padre come fonte e origine unica della Trinità, mantenendo, nello stesso tempo, la perfetta uguaglianza di natura tra le tre divine persone». Per Cantalamessa c’è, all’origine di tutto, «la folgorante intuizione di Agostino e della scuola nata da lui»: essa definisce il Padre come «l’amante, il Figlio come l’amato e lo Spirito Santo come l’amore che li unisce».
Quanto poi al terzo grande mistero — la passione di Cristo — «anch’esso si illumina di luce nuova» partendo dalla rivelazione di Dio come amore. Ma, si è chiesto il cardinale, possono «piaghe, croce e dolore, fatti negativi e, come tali, solo privazione di bene, produrre una realtà positiva qual è la salvezza di tutto il genere umano»?. La verità è che «non siamo stati salvati dal dolore di Cristo, ma dal suo amore»: più precisamente, «dall’amore che si esprime nel sacrificio di se stesso, dall’amore crocifisso». Il dolore di Cristo, ha evidenziato Cantalamessa, «conserva tutto il suo valore e la Chiesa non smetterà mai di meditare su di esso: non, però, come causa, per se stesso, di salvezza, ma come segno e dimostrazione dell’amore». In questo senso, «la morte è il segno, l’amore il significato». Questo toglie alla passione di Cristo «una connotazione che ha sempre lasciato perplessi e insoddisfatti: l’idea, cioè, di un prezzo e di un riscatto da pagare a Dio — o, peggio, al demonio! — o di un sacrificio con cui placare l’ira divina».
«La sorpresa — ha concluso il predicatore — è scoprire che, grazie alla nostra incorporazione a Cristo, anche noi possiamo amare Dio con un amore infinito, degno di Lui». E la conseguenza è che «possiamo amare il Padre con l’amore con cui lo ama il Figlio e possiamo amare Gesù con l’amore con cui lo ama il Padre»: tutto, grazie allo Spirito Santo che «è quello stesso amore».