Eugenio Bonanata – Città del Vaticano
Sembra uno slogan l’appello che il delegato per la Pastorale sanitaria della diocesi di Roma, monsignor Paolo Ricciardi, lancia nella 30.ma Giornata Mondiale del Malato. Eppure, la frase “adottiamo un malato” racchiude in modo concreto l’universo valoriale di ciascun cristiano. “L’obiettivo – spiega il presule – è che ciascuna famiglia possa prendersi cura di una persona sofferente del proprio quartiere”. Un punto d’arrivo concreto per il quale non servono superpoteri. “Basta aprire il cuore”, dice Edith Aldama infermiera peruviana affetta da fibromialgia – patologia che provoca dolore diffuso a livello muscolo-scheletrico – che presta servizio presso il centro d’ascolto del Vicariato.
Da qualche tempo la struttura offre, attraverso il numero telefonico 351/6220086, assistenza e ascolto. A rispondere c’è Edith che, durante la Messa in San Pietro per l’odierna ricorrenza, figura tra i lettori in rappresentanza del Perù dove il Papa avrebbe voluto celebrare questa Giornata. “A volte – spiega – la gente non sa cosa dire di fronte alle persone sofferenti, ma non ci sono parole magiche: spesso basta solo il silenzio o altri gesti semplici come porgere un bicchiere d’acqua o tendere una mano”.
L’importanza dell’altro
La possibilità di raccontare e di raccontarsi è di fondamentale importanza, ma per funzionare richiede la presenza di qualcuno dall’altro capo. “Può essere un ulteriore elemento di cura se non di guarigione”, afferma Antonio Organtini,,direttore generale del Sant’Alessio di Savoia, ipovedente dall’età di 16 anni. “La malattia si vince anche se non si sana”, prosegue raccontando come la sofferenza possa trasformarsi in una opportunità. Utopia? Non proprio. Sebbene sottovoce, Antonio non dice più di aver perso la vista, “ma di aver guadagnato la cecità”. Il punto chiave – spiega – è questo: “Ognuno può confrontarsi con il vero valore della vita che è la condivisione e l’apprezzamento per quello che si ha, senza lamentarsi per quello che manca”. Questo approccio permette almeno un altro paio di considerazioni. Una chiama in causa le famiglie, che spesso vivono una sofferenza indiretta quando qualcuno in casa si ammala. “Con la malattia si può convivere”, avverte Antonio Organtini, invitando ad approfondire la dimensione del dialogo e del vivere quotidiano per evitare di identificarsi con il momento patologico. L’altra considerazione insiste sulla cornice sociale: “La persona malata – sottolinea monsignor Ricciardi , è un membro attivo della comunità che con la sua testimonianza, la sua offerta di preghiera e la sua vita, unita a Cristo Crocifisso, contribuisce al cammino delle realtà parrocchiali e della Chiesa intera”.
La pastorale sanitaria, del resto, ha allargato i propri orizzonti per abbracciare le storie personali. Parallelamente all’animazione all’interno degli ospedali, infatti, si aggiunge sempre di più la promozione della relazione e dell’incontro. Ed è in questo modo che prendersi cura assume un’accezione di prossimità. “Ripartire da Gesù che ha sempre messo al centro la persona sofferente”, ribadisce monsignor Ricciardi. Ed è quanto mai urgente prestare attenzione al territorio perché si conoscano quanti vivono situazioni del genere. “A causa della pandemia – osserva il presule – stanno crescendo molte patologie: penso al disagio mentale, alle malattie psichiatriche, ai disturbi comportamentali o alimentari”.