Più di cento opere, provenienti da circa quaranta musei in Italia, compongono la mostra allestita alle Scuderie del Quirinale in programma fino al 10 aprile prossimo, occasione per ricordare l’impegno di tanti uomini e donne che impedirono con coraggio che meraviglie artistiche di ogni tempo finissero nella voragine della secondo conflitto mondiale
Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Entrando nella prima sala, nella penombra, siamo immediatamente calamitati dal riverbero lunare di una statua che riconosceremo immediatamente. È il Discobolo Lancellotti, una delle opere più celebri e conosciute del mondo antico, copia in marmo di II secolo dall’originale in bronzo di Mirone, datato tra il 455 e il 450 a.C. Intorno alla statua del giovane atleta, dal volto impassibile, tipico dell’arte di stile severo, ma dal corpo teso come un arco, un attimo prima dello scatto per lanciare il disco, incombono le gigantografie di Adolf Hitler e del suo luogotenente Hermann Göring.
Da qui comincia il racconto della mostra, in corso alle Scuderie del Quirinale, visitabile fino al 10 aprile dal titolo “Arte liberata, 1937- 1947. Capolavori salvati dalla guerra”, curata da Luigi Gallo e Raffaella Morselli, organizzata dalle stesse Scuderie, in collaborazione con la Galleria Nazionale delle Marche, l’ICCD – Istituto Centrale per il catalogo e la Documentazione e l’Archivio Luce – Cinecittà.
Subito dopo la stipulazione dell’asse Roma-Berlino, nel 1936, diverse opere d’arte furono cedute “alle brame collezionistiche” di Hitler e del suo maresciallo Göring. Si trattava anche di opere sottoposte a vincolo e che, contro il parere del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, furono forzatamente “deportate” in Germania. Tra queste il Discobolo, che rispondeva esattamente all’ideale di perfezione estetica ariana. Quando Hitler fu a Roma nel 1938 e vide la statua greca, ne rimase folgorato: la volle acquistare a tutti i costi.
Emblematico è il documentario “Olympia”, girato durante le Olimpiadi di Berlino dalla celebre regista Leni Riefenstahl, portavoce della propaganda nazista, che mostrava un atleta che sembrava la copia animata della statua e che accese l’ossessione del Führer per l’arte antica e il sogno di realizzare un enorme museo universale a Linz.
Come dentro una cassa di legno
Nelle sale seguenti, ecco la reazione o meglio dire la resistenza: attraverso sale foderate di assi di legno grezzo, a simulare le casse entro cui erano imballate le opere, sono esposti cento capolavori che sicuramente riconosceremo in larga parte o che avremo visto nei loro musei di appartenenza: pitture, sculture, manoscritti, incunaboli… Tra le opere, per citarne alcune, oltre al Discobolo Lancellotti che a fine mostra lascerà Palazzo Massimo per afferire a Palazzo Altemps, dando così inizio a URBS, il grande progetto di rinnovamento del Museo Nazionale Romano, si ricorda la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca proveniente dalla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino; la Crocifissione di Luca Signorelli dalle Gallerie degli Uffizi, e ancora il Ritratto di Alessandro Manzoni di Hayez, dalla Pinacoteca di Brera.
Alcune opere sfuggite ai saccheggi nazisti provengono dalla Comunità ebraica e dal Collegio rabbinico di Roma. E ancora l’iscrizione votiva greca di metà V sec. a.C. proveniente dal tempio G di Selinunte e ora conservata nel Museo di Palermo “Salinas” è l’inno alla vittoria dei selinuntini. Infine, la Danae di Tiziano, dal Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli, chiude il cerchio dell’allestimento, segnando, con la restituzione, il suo ritorno alla pubblica fruizione, dopo essere stata sottratta da Göring, che l’aveva voluta per adornare la sua dimora.
Si tratta di una mostra corale, che attraverso la bellezza delle singole opere vuole parlare al cuore e raccontare la storia di uomini e donne i cui nomi risulteranno a volte meno conosciuti al grande pubblico ma senza i quali, con il loro coraggio e il loro profondissimo senso civico, avremmo perso un immenso patrimonio artistico.
Piani di evacuazione
Subito dopo l’invasione della Polonia, nel 1939, il ministro Bottai cominciò le operazioni per mettere in sicurezza il patrimonio culturale: inventariare, spostare e nascondere quante più opere possibile. I singoli funzionari risposero subito, uomini e donne che in modo anche rocambolesco, guidando a fari spenti nella notte, oppure nascondendo le opere in casa propria, sotto il letto, non esitano a mettere a repentaglio la propria vita pur di salvare i tesori custoditi nei territori di loro competenza.
Come romanzi d’avventura
Un ruolo chiave ebbe un giovane soprintendente delle Marche, Pasquale Rotondi, che riuscì a mettere in salvo nei depositi di Sassocorvaro e di Carpegna un totale di diecimila opere provenienti da Venezia, Milano, Urbino e Roma.
E le singole storie sembrano proprio quelle dei romanzi d’avventura, come quando le truppe naziste, nell’ottobre del 1943, arrivarono a Carpegna chiedendo di verificare il contenuto delle casse: ne viene aperta una sola e ci sono spartiti musicali. Per loro è cartaccia di poco valore. Sono gli autografi di Gioacchino Rossini, oggi conservati nell’omonima fondazione di Pesaro.
La messa in sicurezza delle opere in situ
E così via via si segue il filo della storia, fino alla liberazione. Un viaggio attraverso la Penisola che visita l’arte e la cultura di periodi diversi legata ai luoghi diversi: dall’arte classica al medioevo, dal Rinascimento all’arte moderna.
Le fotografie lungo il percorso dell’allestimento mostrano anche le commoventi operazioni di messa in sicurezza di monumenti di per sé inamovibili, come i sacchi di sabbia a foderare la parete affrescata del Cenacolo di Leonardo a Milano o le grandi armature per la colonna Traiana e quella Antonina a Roma.
La resistenza dell’arte
Arte Liberata, racconta davvero “la resistenza dell’arte”: condotta su più registri narrativi, grandi temi, città, musei e persone che intrecciano storie personali con la grande storia. Dieci anni drammatici raccontati attraverso la lente di uomini e donne silenziosi, degli “antieroi”, che dopo la guerra torneranno alla routine di sempre e che torneranno ancora a salvare opere in altre circostanze, come durante l’alluvione di Firenze del 1966, che rivede come coordinatore la grande figura di Pasquale Rotondi, assieme agli Angeli del fango.
Il ruolo del Vaticano
Lo stato neutrale nel cuore di Roma rivestirà un ruolo chiave prima dell’armistizio e nel 1944, grazie all’opera della segreteria di Stato, con il cardinale Maglione e dell’allora cardinale Montini insieme allo storico dell’arte Carlo Giulio Argan e poi il soprintendente Aldo De Rinaldis.
Tra le figure di spicco, Emilio Lavagnino trasferì in Vaticano, al sicuro, circa 200 casse contenti opere dislocate nei depositi lungo la linea del fronte: Venezia, Milano, Roma e con l’aiuto di Pasquale Rotondi dalle Marche: le opere di Tiziano, Giorgione, Piero della Francesca, Raffaello, l’intero tesoro della basilica di San Marco sono state salvate grazie alla sua opera.
E Lavagnino continuò a recuperare opere nel Lazio, organizzando il loro trasporto in Vaticano od organizzando la protezione delle architetture, penetrando anche le zone più esposte ai bombardamenti.
Donne indomite
Fondamentale è stato il ruolo di archeologhe e storiche dell’arte, antesignane coraggiose, animate dalla passione per lo studio ma anche da un profondissimo senso del dovere.
Fernanda Wittgens, profondamente legata alla sua Milano, la prima direttrice della Pinacoteca di Brera, insignita del titolo di giusta tra le nazioni per aver aiutato ebrei perseguitati. Palma Bucarelli, la prima direttrice donna di un museo pubblico in Italia, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, definita partigiana dell’arte; Noemi Gabrielli, protagonista del trasferimento e poi della messa in sicurezza di collezioni sabaude nel castello di Guiglia; Jole Bovio Marconi che trasportò da sola, nella sua auto, le metope del tempio di Selinunte nel convento di San Martino delle Scale a Monreale.
E sicuramente, se questi salvataggi sono stati gesti di amore, diventano profondamente comprensibili fatti da queste donne.
Un esempio della storia per comprendere il presente
E guardando alla mostra non si può non pensare a quello che sta succedendo in Ucraina, a quello che succede in Siria e in Turchia, a tutta quella bellezza a rischio a causa delle guerre o dei dissesti naturali. La mostra Arte liberata è la dimostrazione di quello che costa: si perdono vite umane e in più si rischia di spazzarne via la memoria.
Se si distrugge il patrimonio culturale di un luogo si cancella l’identità stessa del popolo che l’ha abitato.
Educare alla bellezza, educare alla pace
In uno dei filmati più affascinanti dell’Istituto Luce lungo il percorso della mostra, dove si racconta l’enorme dispiegamento di mezzi e di denaro per il recupero delle opere disperse durante il dopoguerra, in un periodo di grande difficoltà, si dice che tutta questa fatica è valsa la pena, perché “è importante educare gli italiani alla bellezza”, un’idea nuova che determina il cambiamento, scaturita allora dalle prime leggi varate per la tutela dei beni culturali e pioniera, in un periodo di povertà generale e con un tasso di analfabetismo molto marcato, di un valore ancora maggiore.
Perdere il patrimonio culturale vuol dire perdere ciò che di bello e buono ha fatto l’uomo. Ma educare alla bellezza significa soprattutto educare alla pace, perché conservare e difendere la memoria e la cultura di un popolo vuole dire riconoscere la dignità collettiva, alimenta il senso comunitario, significa acquisire consapevolezza che siamo esseri umani capaci di fare cose meravigliose.