Stefano Leszczynski – Città del Vaticano
A dispetto del black out delle comunicazioni e della chiusura delle frontiere etiopi, le prove che la guerra in Tigray prosegue nel più feroce dei modi arrivano dai satelliti. Le immagini che l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha potuto visionare con un team di esperti mostrano pesanti distruzioni nell’area dei campi per rifugiati eritrei nelle zone di Shimelba e Hitsasts. In questi due insediamenti si trovavano al momento in cui il conflitto è esploso in novembre 22.248 rifugiati. Impossibile attribuire con certezza la responsabilità degli attacchi contro i campi profughi, ma molte testimonianze raccolte in Sudan parlano della presenza di truppe eritree attive in Tigray.
Una guerra feroce
L’ultimo massacro in ordine di tempo di cui è giunta notizia è quello avvenuto ad Axum, nei pressi della Chiesa Santa Maria di Sion, dove si narra sia custodita l’Arca dell’Alleanza. Le vittime dei combattimenti tra il Tigray People’s Liberation Front e l’esercito di Addis Abeba sarebbero almeno 750. Dall’inizio dei combattimenti il 4 novembre 2020 il computo delle vittime civili è nell’ordine delle migliaia, anche perché la guerra è andata ad aggravare una situazione umanitaria già segnata dalla carestia. Le organizzazioni umanitarie continuano a chiedere l’accesso in Etiopia per portare soccorso ai 4,5 milioni di abitanti del Tigray, ma finora nulla sembra muoversi.
L’appello dell’UNHCR
L’accesso delle organizzazioni umanitarie ai campi profughi in Tigray viene definito dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati “una questione di vita o di morte”. Le gravi condizioni in cui versano centinaia di migliaia di persone nella regione più settentrionale dell’Etiopia destano enorme preoccupazione. L’intero paese è isolato sul fronte delle comunicazioni e le sue frontiere sigillate, ma chi riesce a fuggire e a raggiungere il Sudan racconta di eccidi e deportazioni. Sono ormai più di 58mila i rifugiati accolti in strutture dell’UNHCR in territorio sudanese, ma mancano i fondi per assisterli. Di qui l’appello dell’Alto Commissario Filippo Grandi alla Comunità internazionale ad un maggiore impegno per fermare il conflitto e stanziare le risorse finanziarie necessarie ad affrontare la crisi umanitaria. Ne abbiamo parlato con Carlotta Sami, portavoce dell’UNHCR per l’Italia:
R: – Pochi giorni fa l’Alto Commissario, Filippo Grandi, ha espresso pubblicamente le sue preoccupazioni alla conclusione di una missione di verifica che abbiamo potuto fare in Tigray con il consenso del governo etiope. Si è trattato di un evento che ha avuto alcuni risvolti positivi perché ci ha permesso di portare assistenza a circa 25mila rifugiati eritrei in due diversi campi, dove abbiamo potuto ripristinare la fornitura idrica e far ripartire alcuni servizi sanitari che erano stati interroti. Tuttavia, nonostante questa breve missione l’UNHCR con i suoi partner non ha ancora avuto accesso a due grandi campi profughi: il campo di Shimelba e il campo di Hitsasts, che sono da oltre due mesi senza alcun tipo di aiuti e da questo punto di vista siamo molto preoccupati per la sicurezza e la vita dei rifugiati eritrei in quei campi.
Il Paese è sigillato e nessuna comunicazione è possibile. Come arrivano le notizie su quello che sta accadendo?
R: – Almeno 58mila persone sono riuscite a fuggire nel vicino Sudan dove l’UNHCR cerca di fornire assistenza umanitaria. Le persone che abbiamo potuto incontrare continuano a fornire resoconti, che riteniamo affidabili, sulla situazione di insicurezza, su gravi e dolorose violazioni di diritti umani fra cui omicidi, rapimenti mirati, rimpatri forzati di rifugiati in Eritrea. Riteniamo che siano indizi concreti di gravi violazioni del diritto internazionale. L’Etiopia in passato ha accolto centinaia di migliaia di persone in fuga dall’Eritrea, dimostrando grande generosità e quindi la nostra richiesta pressante e urgente è di darci accesso a tutti gli insediamenti così da poter assistere le decine di migliaia di rifugiati eritrei in Tiray. E’ una situazione insostenibile, è una questione di vita o di morte.
Sul versante sudanese com’è invece la situazione?
R: – Tra le prime urgenze che abbiamo affrontato c’è stata quella di allontanare il più possibile i campi profughi dalla frontiera per ovvi motivi di sicurezza. Siamo riusciti a individuare delle località sicure e abbiamo creato dei campi a circa 70 km dal confine, abbiamo anche individuato altri siti dove dal 3 gennaio, abbiamo trasferito più di 5000 persone. Le persone che incontriamo sono genitori con bambini piccoli, persone che avevano posizioni lavorative stabili, moltissimi bambini soli, anziani. Tutti hanno dovuto lasciarsi ogni cosa alle spalle. In questo momento è necessario accelerare la risposta umanitaria perché il passaggio di persone alla frontiera continua.
Quindi è la conferma che il conflitto nel Tigray imperversa ancora, nonostante le dichiarazioni ufficiali?
R: – La situazione in Tigray non è assolutamente stabilizzata. E noi continuiamo a fare appello alle comunità internazionale affinché l’attenzione dimostrata nelle prime settimane della crisi resti alta. Finora sono stati stanziate meno della metà delle risorse finanziare che erano state ritenute necessarie per affrontare la crisi umanitaria. Noi e le organizzazioni partner dobbiamo poter contare su questo supporto finanziario per aiutare i rifugiati e, chiaramente, facciamo appello anche per un impegno internazionale per ristabilire la pace e la sicurezza nella regione, oltre all’accesso incondizionato in Etiopia per tutte le agenzie umanitarie.
Quali sono le ragioni del ritardo da parte della comunità internazionale nello stanziare i fondi necessari ad affrontare la crisi?
R: – Purtroppo l’esperienza ci insegna che spesso le promesse che vengono fatte nel momento in cui i conflitti scoppiano, con il passare del tempo vengono messe da parte. Bisogna mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su questo conflitto per poter fare pressione sulla comunità internazionale. Anche perché la situazione non riguarda solo l’Etiopia ma incide su molte altre situazioni critiche del continente africano. Servono aiuti per migliorare le condizioni dei rifugiati, ma serve anche creare condizioni di sicurezza tali da permettere il loro ritorno, che poi è la cosa che desiderano di più.