Angelica e i tanti bimbi vicini alla croce di Cristo

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La Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” accompagna da tempo le famiglie che accolgono un bambino con una malattia rara o con difetti congeniti. È accaduto anche con Angelica, la piccola scomparsa la sera prima delle dimissioni del Papa dall’ospedale e che Francesco ha ricordato in una preghiera recitata insieme ai genitori. “Noi dottori siamo compagni di un cammino difficile”, spiega il professor Giuseppe Zampino, responsabile del Centro per le Malattie Rare del Gemelli

Benedetta Capelli – Città del Vaticano

La mano del Papa sul viso di Serena, quello di una mamma con il cuore lacerato attaccato al vestito bianco di Francesco come a cercare un conforto difficile da trovare. È un abbraccio che non serve spiegare, anzi, in molti casi le parole sono di intralcio di fronte al dolore. C’è però la preghiera per Angelica, circa 4 anni volata via la notte di venerdì, fatta insieme ad un papà in lacrime che racconta di un incontro precedente con il Papa, risalente al 2019 nel quartiere romano di Casal Bertone. Pregare insieme è la strada per accogliere un mistero perché niente è più inspiegabile della morte di un bambino.

Accoglienza è una parola che trova spazio in questa storia. Serena e Matteo, i genitori di Angelica affetta da Trisomia 18, l’hanno accolta nella loro famiglia e loro stessi sono stati supportati dal reparto di malattie rare e difetti congeniti della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS. Nell’ospedale ogni anno vengono trattati circa 12 mila pazienti affetti da malattie rare, curati dodici bambini al giorno con disabilità più ci sono altri piccoli ricoverati. “L’abbraccio del Papa – spiega il professor Giuseppe Zampino, responsabile unità operativa complessa pediatria, coordinatore delle unità di malattie rare Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – è stata la conclusione di un percorso che la famiglia aveva scelto di fare nel momento in cui, sapendo di avere una bambina con una Trisomia 18, ha accettato di mantenerla in vita e quindi di vivere e condividere questa esperienza difficile”.

Sentire il vuoto

Il professor Zampino si sofferma anche su un aspetto che in molti sottovalutano: “Una persona pensa che quando un bambino che ha così tanti problemi come quelli che aveva Angelica muore, la famiglia vive una liberazione da una serie di problematiche da gestire ma non è così, nella mia esperienza ormai di molti anni ho notato che, dinanzi ad una situazione complessa, la famiglia organizza tutta la sua vita, tutta la sua quotidianità intorno a quel bambino”. Una vita cadenzata dalla sopravvivenza e dalla cura del bimbo, “quando non c’è più il vuoto che lascia è incredibilmente grande”.

“Compagni di cammino”

Nello spiegare l’iter da compiere quando una famiglia si imbatte in una malattia rara, Zampino parla di un’associazione e di un hospice neonatologico che prendono in carico le donne incinte con una diagnosi prenatale di difetti congeniti ma che sono determinate a portare a termine la gravidanza. Il percorso, dopo la nascita, si fa più articolato: si verificano in hospice le capacità vitali del bambino e successivamente, dopo le dimissioni, la famiglia e il piccolo vengono seguiti in Day Hospital ma nello stesso tempo, spiega il professore, si attiva un percorso per arrivare ad una diagnosi sempre più precisa. “Il punto della questione, quello più difficile per le famiglie di bambini che poi diventano adulti, è la mancanza di transizione perché gli adulti restano pur sempre bambini, nel senso che non hanno una maturazione, non hanno un’autonomia e hanno bisogno di un’attenzione che è quasi sempre di tipo pediatrico”. C’è poi il supporto psicologico: “Noi – spiega – ci sentiamo in realtà compagni di cammino e condividiamo una strada difficile ma non per questo ricca anche di soddisfazioni perché ogni progresso che il bambino fa, anche se può essere agli occhi di altri un piccolo progresso, diventa una grandissima conquista e le famiglie spesso vivono di queste conquiste e se ne nutrono, è la loro speranza per andare avanti”.

Comunicare la genitorialità

Il responsabile del Centro di malattie rare non nasconde che, negli anni, si sono fatti passi avanti grazie alla ricerca e alla tecnologia che ha permesso di conoscere meglio le condizioni dei bambini e in alcuni casi di trovare terapie e trattamenti che possono portare alla guarigione oppure al miglioramento dello stato di vita e ad una accurata gestione delle complicanze. L’aspetto che preme però riguarda il peso della comunicazione di una diagnosi. “Spesso, in una prima fase, ci si focalizza sulla malattia che diventa una barriera per l’accettazione del bambino. Sarebbe importante – sottolinea il dottore – riuscire a mettere sempre al centro il bimbo in modo che la famiglia riesca a guardare e a incrociare i suoi occhi e quindi a creare l’attaccamento, a sentirlo figlio. Quando una famiglia sceglie di mantenere in vita un bambino con una disabilità oppure quando viene fatta una diagnosi di una malattia rara, ci dobbiamo chiedere cosa rende questo sostenibile visto che nel momento in cui nasce il bambino c’è sicuramente un danno economico per la famiglia perché la mamma quasi sempre perde il lavoro, il padre quasi sempre riduce il proprio ritmo di lavoro, si va incontro ad un isolamento sociale. Cos’è che mette in equilibrio questa serie di svantaggi? Certamente su questo può pesare la fede, il senso di sentirsi utile, la volontà di indurre un cambiamento di un’intera società, ma soprattutto secondo me è il fatto che una famiglia sente che quel bambino è il proprio figlio. Quello fa la differenza e quindi un medico ha il compito di far sentire sempre l’importanza della genitorialità”.

I santi viventi

L’ultima domanda riguarda il mistero della sofferenza dei bambini, “la più difficile da accettare”, come ha detto più volte Papa Francesco. “È un qualcosa di molto forte perché molto più stridente”, ammette Zerbino. “Ma che cosa rappresenta un bambino con una sofferenza di questo tipo? Una sofferenza che prende origine già dalla sua creazione? Questo bambino – prosegue il medico – è stato creato in una situazione che non gli permette di diventare un grande uomo, un santo oppure uno scienziato, un brigante oppure un uomo comune, gli è stata preclusa questa opportunità di scegliere. E allora uno si chiede: ma che senso ha? Credo che nell’ambito antropologico, teologico e sociologico, il significato di un bambino con una disabilità importante come quella che ha avuto Angelica è da ritrovare nella santità, questi bambini sono santi reali, viventi perché sono quelli più vicini alla croce di Cristo, con il minimo della colpa e il massimo della sofferenza”. È un pensiero che tocca e che forse può indicare una strada anche per vivere pienamente la Settimana Santa.

Ascolta l’intervista al professor Giuseppe Zampino