Il missionario della Consolata, Segretario Nazionale delle Pontificie Opere Missionarie in Polonia, non ha mai smesso dall’inizio della guerra di andare in Ucraina trasportando beni di prima necessità. “La sfida è portare poche cose ma essenziali e in maniera costante. In centinaia di villaggi le persone non hanno nulla di che vivere”
Svitlana Dukhovych – Città del Vaticano
Il numero di bambini uccisi dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha ormai superato i giorni di guerra. Sono 484 le piccole vittime dei combattimenti, quasi mille quelli rimasti feriti, la maggior parte abitanti nella regione di Donetsk. L’ultima a morire, due giorni fa, è stata Victoria, detta Vika. 9 anni. Il suo corpicino nascoso da un telo, straziato da un bombardamento su Kiev, che ha ucciso anche la mamma, vegliato dal nonno ai margini della strada, è l’immagine che più di tutte in queste ore racconta, al di là della fredda e spietata cronaca, un conflitto disumano e disumanizzante, parole abusate, ma ad oggi ancora le sole ed uniche da accostare a questo orrore. Che però può diventare una “grande scuola di umanità”. Don Luca Bovio, missionario della Consolata, Segretario Nazionale delle Pontificie Opere Missionarie in Polonia, è dall’inizio della guerra che periodicamente si spinge fino al fronte per portare aiuti. E’ così che ha scoperto che pur in una situazione di totale bestialità e crudeltà c’è riesce a non perdere “mai la speranza che tutto questo finirà, non abituandosi a questa situazione, non perdendo mai la propria umanità”
Don Luca, lei negli ultimi mesi ha compiuto molti viaggi in Ucraina. Cosa può raccontare dell’ultimo?
Questo ultimo viaggio è stato fatto nella prima settimana di maggio, è il sesto da quando è iniziato il conflitto. È stato impegnativo perché è durato sette giorni, abbiamo percorso più di 3500 chilometri in macchina, visitando e portando aiuti in diverse città, iniziando da Kyiv, spostandoci poi più a nord a Chernihiv, da lì a Kharkiv, a Dnipro e poi a Zaporizhzhia. Da lì siamo tornati a Kyiv e di nuovo a Varsavia, punto di partenza. È stato un viaggio lungo, però anche molto interessante perché ci ha dato modo di incontrare tante persone toccate dalla guerra. Siamo stati anche sulla linea del fronte per poter portare aiuti umanitari, come facciamo in ogni viaggio e quindi testimoniare come l’aiuto sia arrivato e portare anche i ringraziamenti delle persone che ricevono questo aiuto.
Tra i tanti incontri che ha avuto, ne ricorda qualcuno che l’ha particolarmente colpita?
Sì, ce ne sono diversi, ma uno in particolare, più che un incontro è stata una scena che mi ha veramente colpito. In questi viaggi siamo sempre in tre: io, il sacerdote polacco don Leszek Kryza e la sua assistente Rika. Un giorno siamo andati sul fronte, vicino a Zaporizhzhia, accompagnati dai militari perché lì ancora si combatte, era un momento veramente pericoloso, con i razzi che cadevano non lontano da noi. Ma ecco che, a due-tre chilometri, si vede un contadino col trattore mentre ara il suo campo, mentre lo prepara perché è tempo di semina, una scena sorprendente. Ma come? Questo contadino non capisce quello che succede? Oppure lo capisce, ma risponde in questo modo, perché è casa sua, perché ha bisogno di vivere e perché, nonostante il pericolo e i rischi per la propria vita, decide di restare e di continuare a fare quello che deve. Questa è una scena che mi ha colpito molto. Così come mi ha colpito molto anche l’incontro con una donna a nord a Chernihiv, appena fuori dalla città, in un villaggio distrutto al 90%. Questa signora ci ha accompagnato e ci ha fatto vedere il luogo in cui sorgeva la sua casa, raccontandoci come per tutta la sua vita avesse risparmiato per costruire il secondo piano dell’edificio e come oggi, purtroppo, non c’è il secondo piano, ma non ci sia più neanche il primo, ha perso tutto, abbiamo visto la casa rasa al suolo. Questa donna, ora, è senza prospettive per il futuro, non ha più una casa, non ha più le possibilità di ricostruirla e vive con altre persone nei container che il governo polacco ha messo a disposizione di chi ha perso tutto. Senza questi container non potrebbero restare sul posto, non saprebbero dove andare a dormire.
Don Luca, la guerra in Ucraina dura da più di 15 mesi. Lei riceve e raccoglie tanti aiuti umanitari, dall’Italia, da altri Paesi del mondo, e anche dai suoi confratelli, e poi li porta in Ucraina. Secondo lei la solidarietà e, in concreto, gli aiuti, stanno diminuendo?
Sì, diciamo che per quanto riguarda gli aiuti c’è questo rischio. Mi raccontavano persone che vivono sul luogo – sacerdoti e vescovi – che l’aiuto umanitario tante volte è guidato dall’emotività. Quando i media fanno un focus su un Paese, su una regione, in tempi brevi, proprio in quei luoghi, arrivano molti aiuti, talmente tanti che possono mettere in difficoltà la macchina organizzativa, creando anche problemi di distribuzione, perché – un esempio – se in un giorno arrivano in una piccola cittadina distrutta 50 container, si ha un problema su come organizzare tutto in tempi brevi. Però, una volta che i media spostano il focus su un’altra regione, e allora si spostano pure gli aiuti e quindi vengono a mancare. La prima sfida, quindi, credo sia far avere non tante cose, ma poche cose essenziali e in maniera costante. Perché non dimentichiamo che soprattutto lungo la linea del fronte, che è lunghissima più di 1000 chilometri – da Kherson fino a Kharkiv – ci sono centinaia di villaggi dove la gente vive ancora sul posto, ma non ha possibilità di poter comprare nei negozi perché sono chiusi o distrutti, non c’è lavoro e quindi non è difficile capire che sotto la minaccia dei bombardamenti quotidiani, senza gli aiuti umanitari per quelle persone diventa davvero difficile continuare a poter restare e vivere in quel luogo.
In questi mesi di guerra noi ucraini ci siamo accorti che non è sempre semplice tradurre, o anche spiegare alcuni concetti dall’ucraino in italiano e viceversa. Lei durante questi viaggi ha trovato delle difficoltà di capire magari alcune cose che sono proprie della mentalità o della cultura ucraina?
Io sono un missionario della Consolata, vivo da 15 anni in Polonia e questo lungo tempo in cui vivo mi ha fatto capire e leggere meglio quelle differenze che ognuno di noi porta nella sua cultura: non siamo uguali, siamo molto diversi, tutti quanti. E la sfida credo che sia proprio questa: capire che siamo diversi, che il nostro modo di pensare non è il modo di pensare dell’altro. In questa differenza, però, non ci dobbiamo vedere necessariamente un problema, una paura, una difficoltà, ma piuttosto una ricchezza, che comincia quando mi metto in un atteggiamento costruttivo, aperto verso l’altro, che è diverso da me, che può dirmi qualcosa che io non vedo, che non capisco, che non mi appartiene, ma che non mi deve spaventare. Io credo che vivendo in Polonia da molti anni, così anche come i viaggi fatti in Ucraina, mi abbiano aiutato a capire certi modi di pensare e di vedere che apprezzo tantissimo, anche perché mi sento molto arricchito da questa visione. Forse andrebbe capito che, in questo scambio culturale, probabilmente c’è anche una chiave di uscita da questo conflitto, per riuscire a capire che le culture non devono mai portare alle guerre, che chi usa la violenza e la guerra sbaglia, e questo dobbiamo dirlo: non si può mai giustificare una guerra in nome di una cultura, è un errore evidentissimo. Invece, un’accezione della cultura genuina, vera, positiva, ci aiuta a vedere le differenze dell’altro e a capirle. E quindi a me dà un grande dolore tutta questa violenza, questa distruzione, questa morte, così visibile, in Ucraina. Mi fa veramente male al cuore e dico che questo non solo non è cultura, ma non è neanche umano: perdiamo l’umanità in queste situazioni! E allora l’invito è a riscoprire la propria umanità, il proprio senso di appartenenza a un popolo, a una cultura e allo stesso tempo sentirsi assieme altri, per creare veramente quello che diceva Giovanni Paolo II: una civiltà sì, ma una civiltà sulla giustizia, sulla pace, sull’amore fatta da diversi popoli. Credo che questo sia un obiettivo che ci viene dato, e difficile da conseguire, perché ognuno di noi reagisce diversamente, toccato dalla propria storia, vede l’altro con difficoltà, con paura. L’invito è ad uscire da queste paure, ad aprirsi e quindi veramente a cominciare a costruire un futuro di speranza.
Nei media scorrono tante immagini che provengono dall’Ucraina, le immagini della distruzione causata dagli attacchi dei missili. Ma vederlo in prima persona è diverso. Lei, probabilmente, l’ha sperimentato quando è andato vicino alla linea di fronte. Potrebbe descrivere, per favore, cosa si sperimenta, cosa succede nella mente e nell’anima di una persona quando sente esplosioni, quando si trova in pericolo di vita?
Sì, è vero, c’è una differenza enorme tra il guardare un conflitto dalla televisione oppure essere lì sul posto, sentire le sirene, vedere i bombardamenti. E c’è ancora un passo in più, rappresentato dalla gente che vive costantemente lì. Io ho questa esperienza che è molto reale, molto forte, la vivo per pochi giorni, ripetuta nel tempo, ma per coloro che vivono costantemente lì, che non possono uscire, è diverso. Cosa ci si sente? Ci si sente, anzitutto, molto piccoli di fronte ad una realtà che ti sorpassa. Ogni volta che c’è un allarme c’è paura, è una componente umana sentire paura: un allarme aereo ti avverte che è in corso un attacco e non sai dove può finire il missile. Quindi, ti senti veramente spaventato, impotente, proprio impotente. D’altra parte non ti senti solo: con te ci sono tante altre persone, c’è la sensazione che non sei l’unico a vivere quel dramma, ma ci sono centinaia, migliaia, e senza esagerare, milioni di persone che vivono questa situazione. Anche per quanto riguarda i bambini che ogni volta devono correre ogni giorno, anche più volte al giorno, nei rifugi delle scuole, gli insegnanti dicono che ci sono quelli che reagiscono bene, con forza, mentre altri cominciano a piangere, sono stanchi e non capiscono che devono andare lì per la loro sicurezza. E quindi ci sono un po’ queste situazioni. C’è la stanchezza, ma anche il forte desiderio e la speranza che finisca. Per alcuni parlerei anche di rabbia, molti dicono: “Non è giusto. Perché deve succedere questo”. E la rabbia ci sta, come potrebbe non starci in una situazione del genere. Però credo che sia importante fare sempre – e molti lo fanno – una lettura positiva, non perdendo mai la speranza che tutto questo finirà, non abituandosi a questa situazione, non perdendo mai la propria umanità, credo che quello è importante. E l’umanità non si perde nel momento in cui capisci che non sei da solo, che ci sono altre persone vicino a te, che soffrono come te e, forse, anche più di te. Io vi confido che ogni volta che torno da questi viaggi, i miei problemi, le mie preoccupazioni, le mie paure, che io vivo come tutti, diventano molto più piccoli rispetto alle storie che ascolto, così come dicevo prima di quella donna e di tanti altri ancora. Se resiste questo atteggiamento di apertura, diventa anche una grande scuola di umanità. Perché la guerra è terribile, la guerra è brutta, fa male, uccide, ma in questo contesto siamo chiamati a dire: “Cosa posso fare io per te per migliorarti in questa situazione?”, così effettivamente diamo qualcosa di noi, il meglio di noi, quando ci apriamo all’altro e allora lì sì che la situazione di guerra diventa anche un’occasione per scoprire la propria umanità e per aiutare gli altri che hanno queste difficoltà.