35 anni fa la storica visita di san Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma

Vatican News

Debora Donnini – Città del Vaticano

L’abbraccio fra san Giovanni Paolo II e il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, suggellava una visita che resta e resterà impressa nei cuori e nei ricordi di tante persone. Quel giorno di aprile del 1986 per la prima volta un Papa varcava la soglia della Sinagoga compiendo un gesto che i suoi Successori avrebbero poi ripetuto. Tappa, dunque, di un cammino importante fatto anche delle preghiere dei Papi scritte su un biglietto e inserito nelle fessure del Muro del Pianto a Gerusalemme così come delle visite ad Auschwitz e da altri gesti. Un cammino le cui radici senz’altro affondano nella Nostra aetate. E’, quindi, interessante notare, rileggendo i discorsi dei protagonisti di quel giorno di 35 anni fa, i riferimenti a questo documento conciliare così come alla figura di san Giovanni XXIII.

Nostra aetate e Giovanni XIII

Nella ricchezza del discorso tenuto in quell’occasione, Papa Wojtyla sottolineava il legame del cristianesimo con l’ebraismo e, richiamandosi proprio alla dichiarazione del Concilio su “Le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane”, ricordava come la Chiesa “deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei ogni tempo da chiunque”. Volle anche rimarcare che “l’eredità” che intendeva raccogliere era quella di “Papa Giovanni” che, evidenziò, “una volta passando di qui – come or ora ha ricordato il Rabbino capo – fece fermare la macchina per benedire la folla di ebrei che uscivano da questo stesso Tempio. E vorrei raccoglierne l’eredità in questo momento, trovandomi non più all’esterno bensì, grazie alla vostra generosa ospitalità, all’interno della Sinagoga di Roma”.

Toaff: il gesto destinato a passare alla storia

Nelle sue toccanti parole era stato, infatti, lo stesso rabbino Toaff a richiamarsi sia al documento conciliare sia al gesto di Giovanni XXIII, esprimendo “viva soddisfazione” per la visita di Giovanni Paolo II e definendola come un “gesto destinato a passare alla storia”. Lo ricollegava, infatti, “all’insegnamento illuminato” del suo predecessore, Giovanni XXIII, “il primo Papa – sottolineò – che in una mattinata di sabato si fermò a benedire gli ebrei di Roma che uscivano da questo Tempio dopo la preghiera”. Un gesto che, osservò ancora, si inserisce nella scia del Concilio Vaticano II che, appunto, con la Nostra aetate  “ha prodotto, nei rapporti della Chiesa con l’Ebraismo quella rivoluzione che ha reso possibile la Sua odierna visita”.

Papa Roncalli e il Concilio Vaticano II vennero allora richiamati anche dal presidente della comunità israelitica di Roma, il professor Giacomo Saban, che ricordò come la Nostra aetate “introduce un diverso rapporto tra la fede di Israele e quella del mondo che ci circonda, restituen­doci non solo quanto per secoli ci era stato negato, ma anche la dignità che sempre era stato no­stro diritto vedere riconosciuta”.

L’eco di quella visita è rimasto. Allora Giovanni Paolo II parlò dei “nostri fratelli prediletti” e “in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori”. Al rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni abbiamo chiesto con quali emozioni ricorda quel momento e quale l’importanza che ebbe per la comunità ebraica?

Ascolta l’intervista al rabbino Di Segni:

R.- Sicuramente c’era la coscienza che si trattasse di un avvenimento storico di grande valore simbolico che veniva a segnare il capovolgimento delle modalità dei rapporti tra i due mondi. È stato un evento che ha avuto significato soprattutto dal punto di vista mediatico perché l’immagine dell’abbraccio tra i due rappresentanti religiosi ha superato da sola le difficoltà teologiche. Nessuno legge, se non pochi specialisti, i documenti delle commissioni e tutti vedono le immagini. Anche le parole hanno avuto il loro significato e in particolare la definizione di “fratelli maggiori”, benché questa non ci entusiasmi dal punto di vista teologico, perché nella Bibbia i fratelli maggiori sono quelli cattivi e perdenti.

Cinque anni fa, a gennaio, anche Papa Francesco fece visita al Tempio Maggiore di Roma. E prima, nel gennaio 2010, Benedetto XVI. Questi Pontefici hanno rimarcato l’impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia con gli ebrei, dato anche dal documento conciliare Nostra aetate. Come procede questo dialogo?

R. – Le visite dei due Pontefici sono state molto importanti perché hanno segnato la volontà da parte dei massimi rappresentanti della Chiesa di continuare la strada aperta da Papa Giovanni Paolo II. E non è stato soltanto continuità ma è stato anche progresso perché ai tempi di Giovanni Paolo II c’erano tanti problemi e adesso non è che i problemi non esistano ma per molte cose esistono le strade e le modalità per affrontarli. Quindi è un percorso, diciamo, in crescita positiva.

“In una società spesso smarrita nell’agnosticismo e nell’individualismo e che soffre le amare conseguenze dell’egoismo e della violenza, ebrei e cristiani sono depositari e testimoni di un’etica segnata dai dieci Comandamenti, nella cui osservanza l’uomo trova la sua verità e libertà. Promuovere una comune riflessione e collaborazione su questo punto è uno dei grandi doveri”, disse nel suo discorso alla Sinagoga Giovanni Paolo II. Quali sono i punti concreti su cui oggi ebrei e cristiani, in un momento storico tanto difficile per l’intera umanità a causa della pandemia, possono collaborare?

R. – La pandemia ci ha messo di fronte a delle sfide rispetto alle quali le strutture portatrici di valori devono dare delle risposte: risposte che ci sono state nel senso dell’organizzazione, della solidarietà, del richiamo a valori morali da condividere, da scelte da fare per il bene collettivo. Ancora di più ci saranno sfide nel momento in cui usciremo da questa pandemia e ci troveremo ad affrontare una società che inevitabilmente è cambiata, in cui le nostre abitudini più semplici saranno differenti. Allora, rispetto a questo, il richiamo a sistemi religiosi e valoriali come quelli nostri, in cui l’imperativo morale e la solidarietà hanno un valore essenziale, sarà assolutamente utile e necessario.