Zuppi: Livatino beato, per fede “ha unito la giustizia alla carità”

Vatican News

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

La mafia ha ucciso Rosario Angelo Livatino perché da magistrato credibile, “non evitava i problemi e non li lasciava agli altri”. La sua grandezza di martire non sta nel suo coraggio, ma nel suo amore verso Gesù e verso il prossimo, più che verso sé stesso. “Angelo nel nome, nell’aspetto e soprattutto nel cuore”, che non cercava la propria convenienza, notorietà o protagonismo, ma lavorava umilmente. “Amava Gesù, e chi lo ama non può amare la corruzione, il clientelismo, il modo mellifluo di mettere davanti i propri interessi”. Così il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, ha ricordato il giovane magistrato siciliano, ucciso da sicari della stidda agrigentina il 21 settembre 1990, mentre con la sua piccola utilitaria, senza scorta, dalla casa in cui viveva con i genitori, a Canicattì, andava al lavoro al Tribunale di Agrigento.

“La sua fede, motivo in più per esercitare la difficile giustizia umana”

Il porporato ha usato queste parole nell’omelia della Messa celebrata questa mattina a Roma, nel cortile d’onore davanti alla cappella della Corte di Cassazione, su invito del Centro Studi Rosario Livatino, nel 32.mo anniversario del martirio del magistrato, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 70 anni, e beatificato il 9 maggio 2021. La sua fede nel Signore, per la quale è stato elevato agli altari, “era un motivo in più – ha spiegato il presidente della Cei – per esercitare la difficile giustizia umana, perché la giustizia del cielo in realtà aiuta ad essere imparziali sulla terra, onesti, senza tornaconto personale, perché insegna ad amare”.

Rispettando gli imputati, univa giustizia e carità

L’arcivescovo Zuppi ha ricordato che “senza enfasi, senza mai apparire, sempre rispettando gli imputati, Livatino univa la giustizia con la carità verso il prossimo, specialmente se più debole”. Il suo motto “Sub Tutela Dei” per lui era essere libero da altre tutele, da quelle invisibili delle mafie e degli interessi di parte, e sotto lo sguardo di Dio “essere giudice giusto, esercitare il difficile discernimento”. Per questo diceva che “giustizia e carità combaciano”, e questo diventa oggi “recupero di chi ha sbagliato per offrire così sicurezza a tutti”.

Nell’epoca del “politicamente corretto”, della pretesa neutralità anche confessionale del giudice, possiamo dire che la Chiesa, proclamando beato Livatino, ha detto che è stato un giudice credibile e valido soprattutto grazie alla sua fede, e non nonostante essa?

Assolutamente. La fede è stato il presupposto su cui si basava tutta l’opera di Livatino: lui prima di andare al lavoro passava sempre in chiesa. E mi ha molto colpito oggi l’immagine che è stata utilizzata per la celebrazione che la stessa che è stata esposta quando è stato proclamato beato. Perché c’è Livatino con la toga, con i codici dietro lui il crocifisso. Allora sappiamo che ci sono diverse pronunce che affrontano la tematica dell’esposizione del crocifisso. Livatino ci ha dimostrato come la giustizia possa essere esercitata da un credente, e anche, sia pure non avendo affrontato direttamente l’argomento, ci ha dimostrato che l’esposizione del crocifisso nelle aule di giustizia in realtà non lede i diritti fondamentali, ed è invece un segno grande che ci invita a pensare tutti ad esercitare, in maniera rigorosa e seria, il nostro dovere e il nostro lavoro.

Il beato Livatino ha parlato di amore del magistrato credente “verso la persona giudicata” e che “il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di se a Dio”…

Sì, anche il cardinale ha richiamato queste parole al termine dell’omelia. Livatino aveva anche molto chiara la distinzione tra questo esercizio straordinario, fondamentale, del rendere giustizia. Io mi limito soltanto a richiamare il ruolo che aveva il pontifex nell’Antica Roma nell’esercizio della Giustizia. Livatino ci ha dimostrato non soltanto come va esercitata la giustizia, ma anche la necessità, nonostante i drammi che un uomo può aver causato, nonostante le sue colpe, nonostante le cose gravissime che può aver compiuto, di tenere distinti gli atti compiuti da una persona dalla dignità della stessa. Si racconta che lui, al termine dei processi, andasse a stringere la mano anche alle persone che venivano condannate per le sue indagini o per il suo giudizio. Questo perché teneva ben distinta la figura del colpevole dagli atti che può aver compiuto. Gli atti possono essere i più spregevoli, però poi dobbiamo sempre ricordarci, ed è essenziale anche per continuare a denunciare la gravità della pena di morte, che invece la dignità della persona va ben aldilà degli atti e dei misfatti di cui può essere macchiata

Quali iniziative avete in programma in questa fine 2022 e 2023 come Centro Studi Rosario Livatino?

Noi ci occupiamo soprattutto di quelli che potremmo chiamare i principi naturali, non negoziabili, e quindi la difesa del matrimonio, la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, e la difesa delle libertà della persona. Penso che tutto quest’anno ci sarà da impegnarsi su questi temi. Adesso si apre una legislatura molto importante nella quale questi temi saranno di nuovo al centro e chiaramente, come gli studiosi, come giuristi, sarà importante dare il nostro contributo per promuovere questi principi che sono alla base della nostra convivenza. Cioè sono principi, e questo lo spiegano già giuristi romani, che servono per il bene, ma non della società astratta, quella che leggiamo sui libri, ma proprio per il bene delle singole persone.