Il commento dell’arcivescovo di Canterbury alla fine del viaggio in Sud Sudan che l’ha visto a fianco del Papa e del Moderatore dell’assemblea della Chiesa di Scozia: “I cristiani si sono abituati a vivere separate, ma è la normalità che la Chiesa lavori come una cosa sola”
ANDREA TORNIELLI
“Ci siamo abituati, come Chiese, a vivere da separati… ma è la normalità che la Chiesa lavori come una cosa sola”. L’arcivescovo di Canterbury Justin Welby è sull’aereo che da Juba, capitale del Sud Sudan, sta facendo rientro a Roma. Dopo la conferenza stampa, condivide con Radio Vaticana – Vatican News alcuni pensieri sul viaggio appena concluso, vissuto insieme al Vescovo di Roma e al Moderatore dell’assemblea della Chiesa di Scozia.
Arcivescovo Welby, qual è la sua impressione alla fine di questo viaggio in Sud Sudan, un pellegrinaggio fatto insieme al Papa e al Moderatore dell’assemblea della Chiesa di Scozia, per favorire la pace e la riconciliazione in un Paese martoriato dalla guerra civile e dalla povertà?
Penso che il viaggio abbia un effetto a livello locale del Sud Sudan, su cui tornerò, e un effetto a livello globale. Il fatto che questi tre leader religiosi siano andati insieme per la prima volta in assoluto, certamente dopo la Riforma, prima della quale due delle nostre Chiese non esistevano, credo sia un segno di speranza per la pace e la riconciliazione in tutto il mondo. Se coloro che hanno passato 150 anni ad uccidersi a vicenda e i successivi 300 a condannarsi a vicenda possono ora ritrovarsi a cercare insieme la pace e la riconciliazione, allora chiunque può farlo. Di solito non lo indosso, ma in questo momento porto l’anello che Papa Paolo VI regalò al mio predecessore Michael Ramsey negli anni Sessanta, come primo segno del legame tra le nostre Chiese. E quel legame – quell’anello – e poi il bastone pastorale che il Papa mi ha dato nel 2016, insieme ci parlano con forza di un cambiamento del cuore. Questo mi porta al Sud Sudan. Abbiamo bisogno di un cambiamento del cuore. Il movimento dello Spirito nelle Chiese, in particolare molti movimenti all’interno del movimento carismatico, direi, e i movimenti tra le congregazioni a livello locale, hanno abbattuto molte delle barriere che ci separavano e ci hanno permesso di vivere l’ecumenismo. Quindi l’ecumenismo è stato messo in pratica. La Seconda guerra mondiale e dopo di essa, la cortina di ferro ed il comunismo ci hanno dato l’ecumenismo della sofferenza. E l’ecumenismo di portare il Vangelo della pace, sia per la pace fisica in guerra che per la pace nel cuore umano, è la terza cosa. In Sud Sudan, il mio grido e la mia preghiera sono per il cambiamento del cuore umano della leadership. Ogni volta che ho parlato laggiù negli ultimi due giorni, si potevano sentire le grida della folla quando qualcuno di noi menzionava la pace, la sicurezza delle donne e la necessità di porre fine alla corruzione. Il popolo del Sud Sudan chiede la pace. I leader devono darla.
Questo pellegrinaggio comune è un grande segno per il mondo, anche per l’ecumenismo, come lei ha detto. Può avere un significato anche per il futuro, per altri Paesi e altre situazioni? È forse un nuovo modo per i cristiani di lavorare insieme per la pace e la riconciliazione, anche se sono divisi in Chiese e confessioni diverse?
Se questo fosse un dialogo e non un’intervista, le riproporrei questa domanda: “Quante persone sono risorte dai morti la domenica di Pasqua?”. Una. Come possiamo essere tante Chiese? Allora, che cosa facciamo a questo proposito? C’è una sola risurrezione, che è la fonte della nostra vita. C’è un solo Dio crocifisso, che è la fonte del nostro perdono. C’è un solo Spirito, come dice Paolo in 1 Corinzi, che è la fonte della vita della Chiesa e delle nostre doti. Dio ha fatto tutto ciò che rende possibile la nostra riconciliazione. È solo l’orgoglio umano che vi resiste. C’è anche una misura in cui non si tratta di un orgoglio consapevole, ma è come le coppie in consulenza matrimoniale che ho incontrato, e che hanno vissuto vite da separati per molti anni. E si sono abituati a stare separati. Lo considerano normale. Abbiamo bisogno che ci venga costantemente ricordato, e spero che questo viaggio ricordi alle persone che la normalità è che la Chiesa lavori come una sola cosa. Ciò che è anormale è essere in competizione. Non so quanto sia andato in profondità l’ecumenismo. È molto diffuso, ma non sono sicuro che sia abbastanza in profondità nei cuori di molti leader cristiani in tutto il mondo. Abbiamo tutti bisogno del confronto con Cristo che ci chiama e ci dice: “Seguite me”, non seguite me e lui e lui e lui e… così via.