L’arcivescovo di Canterbury riflette sullo stile pastorale del Papa: c’è in lui una profondità che è una benedizione per tutta la Chiesa, non solo per la Chiesa cattolica romana
JUSTIN WELBY
Arcivescovo di Canterbury
La prima volta che ho incontrato Papa Francesco è stato circa due o tre mesi dopo aver iniziato il mio mandato ed ero molto nervoso. Non avevo mai incontrato un Papa, non sapevo cosa pensare, non sapevo che tipo di persona fosse. Siamo entrati, mi sono seduto, e lui mi ha detto: «Sono più grande di te…», e io ho pensato: «Oh mamma mia, sarà uno di quelli…». E lui aggiunse: «… di tre giorni!». Perché aveva iniziato il pontificato tre giorni prima che io iniziassi il mio incarico. Quell’inizio mi ha rivelato molto di Papa Francesco e ha caratterizzato la mia esperienza di lui.
Ho sperimentato la sua umanità straordinariamente profonda, che non scende a compromessi sulla verità, e che attribuisce a ogni essere umano un valore infinito. Molti lo dicono – io lo dico – ma lui lo vive. La seconda cosa è una notevole apertura nell’approccio alla morale. Cerca di guardare i problemi attraverso una lente diversa, in un modo diverso. Forse è il suo background di gesuita. Non lo so, succede spesso con i gesuiti, ma il risultato è che affronta i problemi da un’angolazione sorprendente. Se parli con lui delle molte questioni che la Chiesa deve affrontare, egli guarda nel cuore dell’uomo e trova modi di amare che riescono a sbloccare le parti del cuore indurite.
La terza cosa che vorrei dire di lui è che la semplicità che appare è una semplicità genuina. Queste tre cose: la sua notevole capacità di intelletto e di carattere, la profondità del suo cuore e la sua semplicità gli consentono di raggiungere in modo straordinario coloro che sono al di fuori della Chiesa, come faceva san Giovanni Paolo ii. C’è una profondità che è una benedizione per tutta la Chiesa, non solo per la Chiesa cattolica romana.