Walid Basha è cristiano palestinese, professore universitario a Nablus. Da Jenin, dove vive, racconta la paura di essere invasi dall’esercito israeliano e invoca l’aiuto della comunità internazionale: “Contiamo le vittime, ma non siamo numeri”
Antonella Palermo – Città del Vaticano
La tensione cresce di giorno in giorno in Cisgiordania dove Israele ha intensificato le operazioni anti-terrorismo. Continua a salire il bilancio dei palestinesi rimasti uccisi oggi, 14 novembre, a Tulkarem nel corso di scontri a fuoco con l’esercito israeliano. Secondo la agenzia di stampa palestinese Wafa il numero complessivo dei morti è salito a sette, mentre i feriti sono una dozzina. Intanto un altro palestinese è stato colpito a morte presso Hebron dopo che, secondo i media israeliani, la scorsa notte ha cercato di accoltellare un soldato.
Appesi a un filo
A Jenin la paura sta toccando livelli senza precedenti. Qui, dove è situato il campo profughi oggi più bollente della West Bank, con 17 mila persone, soltanto giovedì scorso negli scontri con i soldati sono morti una quindicina di ragazzi. Israele ha anche utilizzato l’aviazione. Nonostante la presenza del “Freedom Theater”, un’istituzione culturale fondata assieme ad alcuni intellettuali israeliani nel 2006 che ha sempre cercato il dialogo tra le sue società, sono sfibrate le speranze in una riconciliazione.
“Mentre le parlo, noi siamo seduti a casa aspettando l’invasione, non sappiamo quando avverrà e come. Potrà essere di giorno, di notte. Potrebbe accadere in qualsiasi momento”, dice al telefono Walid Basha, palestinese cristiano, di Jenin, professore di microbiologia a Nablus, presso la An-Najah National University. A Jenin vivono 20 mila persone, i cristiani sono una piccolissima comunità, circa 140. “La nostra chiesa è stata bruciata e non è stata più rimessa in sesto. Uno dei punti più caldi del conflitto è concentrato proprio di fronte alla nostra chiesa”. Nonostante lo strazio di questa guerra e la tentazione che nei territori molti hanno di emigrare, è fermamente convinto di voler restare nella sua città.
Contiamo le vittime, ma non siamo numeri
Troppo vivo è ancora il ricordo di quel 3 luglio, quando l’esercito di Israele ha compiuto quello che viene considerato il più massiccio attacco nell’area dal 2002. “Quella volta accadde alle 9.30 della mattina, mentre tutti erano a scuola o a lavoro. Circa 4 mila studenti non hanno potuto lasciare la loro scuola fino a notte fonda. Oggi tutta la città è circondata da cecchini, soldati, tanks. È terribile. Siamo in guerra. Quindici palestinesi sono stati uccisi qui in un solo giorno. Noi contiamo i numeri – lamenta – ma non sono numeri, sono esseri umani. Abbiamo perso tanta gioventù a Jenin”. Lo sguardo di Basha è alle strade di Jenin: “Distrutte vie di comunicazione, infrastrutture, le insegne per la circolazione”. Spiega ancora Walid che “i palestinesi stanno cercando la libertà”. Il pensiero corre ai bambini a Gaza, alla donna cristiana, la migliore musicista palestinese, uccisa mentre rientrava dalla chiesa
Nessuna notizia dei miei amici a Gaza
Walid Basha racconta dei molti colleghi e amici che ha a Gaza. Ci sono le suore del Rosario, tra loro. Purtroppo i contatti sono troppo difficili. “Non ho loro notizie da una ventina di giorni. Quello che sta accadendo là è tremendo. Stiamo assistendo a un disastro. Immagini migliaia di persone con un solo bagno, senza acqua, temiamo il colera, il tifo, la tubercolosi, il coronavirus. Due giorni fa tre cani mangiavano i cadaveri per le strade”. Intanto, l’attività accademica prosegue inevitabilmente online, con tutti gli studenti sotto stress. “Parlo per me, non c’è conforto a questa situazione”. E chiosa: “Tutti stanno a guardare. Tutto il mondo sta a guardare. Nessuno si cura della gente a Gaza. Là c’è un allarme focolaio. Io sono contro chi uccide – precisa – io non voglio Hamas come mio leader. Io sono cristiano, credo in Gesù Cristo, siamo qui da duemila anni, sono un palestinese, vorrei solo libertà e dignità e potermi sentire un essere umano. Non potete immaginare cosa significhi non avere la libertà di spostarsi. È un disastro”.