Chiesa Cattolica – Italiana

Vino nuovo e otri vecchi, storia di una conversione

Sui media vaticani, uno dei racconti di Dale Recinella, ex avvocato della finanza di Wall Street che oggi, insieme alla moglie Susan, assiste i detenuti in Florida

di Dale S. Recinella

Nel giugno del 1988, questo Yankee trapiantato non è a conoscenza degli avvertimenti di non mangiare ostriche crude nei mesi che non abbiano una ‘r’ nel nome. Eppure, nel momento in cui mordo quell’ostrica cruda, so che c’è qualcosa che non va. Non ha il sapore giusto.

Quella sera dormo in un hotel dell’aeroporto di Orlando. Domattina volerò a Detroit per noleggiare un’auto e andrò a Holland, nel Michigan, dove un cliente di una banca d’affari sta negoziando un finanziamento per ampliare l’ospedale locale.

La mattina dopo, prima di lasciare il mio hotel, telefono a mia moglie Susan.

“Hai una voce strana”, afferma.

“Caspita, mi sta venendo qualcosa.” La mia risposta è distratta e tranquillizzante. “Sembra solo un raffreddore, forse. Nulla di cui preoccuparsi.”

Dopo essere atterrato a Detroit, prendo un’auto a noleggio. La testa inizia a pulsarmi mentre lascio Detroit per Holland e ho la gola riarsa.

Quando raggiungo il mio hotel a Holland, capisco che mi sono buscato l’influenza estiva. La mattina dopo, l’influenza è da escludersi. Ho problemi a tenere fermo il telefono.

“Susan, ho la febbre alta e sto tremando.” ‘Sto tremando’ sembra meno allarmante che dirle ‘ho le convulsioni’. Ma le parole non cambiano la realtà.

“Hanno fatto in modo che qualcuno mi accompagni all’aeroporto più vicino.” Con l’energia che userei per urlare, la mia voce riesce a malapena a superare un sussurro. “Ho bisogno che tu venga a prendermi all’aeroporto di Tallahassee. Non credo di poter guidare”.

Qualunque cosa sia, è davvero brutta. Durante le quattro settimane successive, la febbre segue uno schema, iniziando bassa e raggiungendo un livello molto alto, poi si interrompe per circa dodici ore, per ricominciare daccapo. La dissenteria è all’ordine del giorno. Non riesco a trattenere niente. E niente sembra fornirmi energia. Le cure ambulatoriali sono accompagnate da un numero incredibile di analisi ed esami. Epatite. HIV. Parassitosi. Brucellosi.

I risultati degli esami sono tutti negativi.

Nel frattempo, la febbre continua a salire e io sto sempre peggio.

“Sappiamo le mille cose che non hai”, il mio dottore simula umorismo mentre firma l’ordine di ricovero per me all’ospedale regionale. “Soltanto non sappiamo cosa hai.”

L’ovvia frase successiva non viene detta. Sto morendo.

Gli antibiotici per via endovenosa non sfiorano nemmeno l’andamento della malattia. Alla fine, dopo i miei diversi giorni in ospedale che seguono le quasi sei settimane di malattia estrema, il dottore si presenta nella mia stanza fuori dal turno di visita.

“Per favore si sieda.” Fa un cenno a Susan e spinge una sedia nella sua direzione. Lei si siede alla mia sinistra e mi prende la mano tra le sue.

“E per favore ascoltate attentamente.” Ora il medico mi sta parlando direttamente, mentre giaccio a letto con la testa leggermente sollevata e la febbre che infuria a 40°. “Sei in grado di ascoltarmi e capirmi?”

Annuisco leggermente, sapendo che non vorrò ascoltarlo o capire le sue parole. È il tardo pomeriggio e sono estremamente stanco. Più che stanco. Non mi è mai venuto in mente che una persona possa essere così malata per sei settimane ed essere ancora viva. Io non voglio morire, ma, a questo punto, il pensiero porta un senso di sollievo.

“Non riusciamo a capire cosa hai”, parla senza gesti e freddamente. La mia sensazione intuitiva è che risenta del fallimento.

“Chiaramente è un batterio.” Si ferma per un rapido controllo visivo che Susan sia seduta saldamente. “Qualunque cosa sia, ha vinto e tu hai perso.”

“Il tuo fegato ha smesso di funzionare.” Un’altra occhiata a Susan. “Tutti i principali organi del tuo corpo sono coinvolti e stanno spegnendosi.”

La stanza è completamente silenziosa. Troppo silenziosa.

“Sig. Recinella… Dale”. Si schiarisce la gola. “È finita. Non puoi sopravvivere alla notte. Non puoi vivere più di altre dieci o dodici ore. Non vedrai la mattina di domani.”

Susan è completamente irrigidita, tranne che per la stretta delle sue mani attorno alle mie. Immagino ciò che il medico sta per dire. Non avrei mai pensato che avrei sentito il mio dottore dire queste parole a me.

“Sig. Recinella, devi sistemare i tuoi affari.”

I bambini vengono a farmi visita, poi la mamma di Susan li porta a casa nostra. Si occuperà di loro mentre Susan aspetterà che io muoia.

Il nostro parroco viene ad amministrarmi l’Unzione degli Infermi. Prima di perdere conoscenza, saluto Susan con un bacio. Sta piangendo. Resterà qui. Starà qui fino alla fine. È la veglia in attesa della morte, svolta prima che abbiamo mai sentito questa definizione.

La febbre sale tremendamente alta. Non riesco a tenere gli occhi aperti. Vorrei, ma non posso. Il mio ultimo sguardo è per Susan, seduta accanto al mio letto, che mi guarda come se la forza del suo sguardo potesse trattenermi qui. Non può. La febbre ha la meglio. I miei occhi si chiudono. Tutto è buio.

Improvvisamente, a un certo punto nel cuore della notte, mi ritrovo in piedi al centro di una stanza. Non è la mia stanza d’ospedale. È buio, tranne che per l’illuminazione che si riversa dalla persona di fronte a me. Lo riconosco subito. È Gesù. Assomiglia esattamente alla Sua immagine che era appesa nella mia cameretta da bambino. Risplende in un modo che sfida ogni descrizione, caldo e luminoso, che si irradia, penetrando l’intera stanza e persino il mio corpo. Mi sta fissando intensamente. Ma non sorride. È profondamente addolorato. Ci sono lacrime sul Suo volto. Mi rendo conto che sta piangendo sommessamente.

“Dale”, stende le braccia verso di me, mentre scuote dolcemente la testa per il dolore e la delusione. “Cosa ne hai fatto dei miei doni?”

L’avvocato in me risponde per istinto difensivo. “Quali doni?”

Mentre Gesù mi risponde, elencando il mio set di abilità, non sembra arrabbiato o turbato. Solo triste. Molto, molto triste. Descrive in dettaglio ogni aspetto del mio intelletto, educazione, formazione, personalità e temperamento che fanno parte del mio successo mondano.

Ma continuo a non capirlo. Lui non sta giudicandomi, eppure ogni risposta che mi viene in mente è difensiva.

“Ho lavorato sodo. Mi sono assicurato che i miei figli potessero frequentare le migliori scuole”. Mentre le parole mi escono dalle labbra, mi rendo conto che sto usando il linguaggio del ceto altolocato e facoltoso.

“Viviamo in un quartiere sicuro; la mia famiglia è al sicuro. C’è di nuovo quella sensazione. Mentre la mia bocca è ancora in movimento, nei miei pensieri sento: linguaggio del ceto altolocato ed esclusivo.

“Il nostro futuro è finanziariamente sicuro!” Eccola di nuovo, la voce nella mia testa, l’affermazione che abbiamo riempito tutti i nostri granai e ne stiamo costruendo di più grandi. Solo che questa volta il pensiero arriva con un ricordo delle parole di Gesù nel Vangelo, sugli sciocchi che riempiono i propri granai (Luca 12:16-21).

“Mi sono preso cura della mia famiglia proprio come fanno tutti gli altri.” L’evidente difesa della mia voce mi fa capire che sto litigando con qualcuno. Con chi? Gesù non sta ribattendo. Con chi sto litigando? Con me stesso?

Alla fine, le Sue mani cadono lungo i fianchi. La Sua espressione non è di condanna. Piuttosto, è come lo sguardo sgomento di un genitore che ha detto mille volte qualcosa al figlio adolescente ed è incredibile che il ragazzo non l’abbia ancora mai recepita. Parla con un tono supplichevole che rasenta l’esasperazione.

“Dale, cosa mi dici di tutta la mia gente che sta soffrendo?”

In quel momento, è come se un’onda alta due metri si infrangesse improvvisamente e inaspettatamente su di me su una spiaggia oceanica. Non sono in spiaggia, e l’onda è completamente trasparente, invisibile, ma tangibile. Posso sentire la sua consistenza. Ed è acida, corrosiva all’estremo. Sembra che il mio stesso essere si dissolva in essa.

In qualche modo, intuitivamente, capisco subito che l’acido è la vergogna, la vergogna dell’egoismo e del narcisismo della mia vita. Ho usato la mia famiglia come scusa per prendermi cura solo di me, del mio ego e del mio falso senso di importanza. Lotto contro il senso di dissoluzione che penetra nel mio essere.

“Per favore!”, raccolgo l’energia per la mia ultima supplica, mentre Gesù è ancora in lacrime davanti a me. “Per favore! Te lo prometto. Dammi un’altra possibilità e farò le cose in modo diverso.”

Questo è tutto. È tutto finito. L’onda è sparita. Lui è sparito. La stanza è buia.

Sono circa le 6,30 del mattino seguente quando apro gli occhi. Susan è stata seduta accanto al mio letto tutta la notte ad aspettare che morissi. Rabbrividisco al ricordo del mio ultimo pensiero visivo prima della notte, l’ultima immagine che la mia mente ha di lei in questo mondo.

“Non sono morto, vero?” Mi sorprende risentire la mia voce. C’è un lungo momento prima che lei risponda.

“Beh, hai un aspetto piuttosto orribile.”, Susan sorride con tutta l’ironia di cui dispone dopo la sua lunghissima notte. “Ma ovviamente, non sei morto. Stai ancora parlando.”

C’è un altro lungo momento di silenzio.

“Oh, oh.” Il mio sospiro porta tutto il peso del non avere idea di ciò che ho promesso di fare a Gesù.

La febbre non c’è più. Il batterio è sparito. Il dottore dice che è impossibile, veramente impossibile. Tre anni dopo il batterio verrà identificato come Vibrio vulnificus, un batterio carnivoro che provoca intossicazioni alimentari mortali e infezioni delle ferite. È estremamente letale anche con l’esposizione esterna. Io l’avevo inghiottito.

Tuttavia, la seconda metà della mia preghiera è stata esaudita. Ho visto me stesso, le mie scelte e la mia vita, come Dio le vede.

Dopo che Susan e io abbiamo condiviso le nostre esperienze di quella notte, cerchiamo una risposta alla domanda persistente: “E adesso?”

Per me, la domanda sembra puntare in una sola direzione. Sistema Dennis. Porta Dennis a Tallahassee e salvalo. Ciò significa fare un elenco di azioni da spuntare man mano che si eseguono. Questo è qualcosa in cui sono bravo.

Sono ancora gravemente debilitato alla fine di luglio. Non è facile salire sull’aereo per l’aeroporto internazionale di Baltimora-Washington, né poi prendere il taxi per il centro di riabilitazione dove Dennis sarà pronto e in attesa di tornare con me nella sua nuova casa a Tallahassee. Ho parlato con lui al telefono diverse volte, anche ieri sera prima di questo viaggio. Tutto è pronto.

Quando arrivo al centro di riabilitazione, a circa trenta minuti di taxi dall’aeroporto, in questo assolato sabato mattina, un membro del personale mi fa cenno di restare nel taxi. Ho una sensazione di naufragio nello stomaco quando questa persona si avvicina e mi fa cenno di abbassare il finestrino del passeggero.

“Se n’è andato.”, alza le spalle con un gesto di impotenza che deve essergli abituale. “Dennis è scappato circa un’ora fa. Sembra che sia sgattaiolato fuori dalla sua finestra. Abbiamo cercato ovunque e nessuno è riuscito a trovarlo.”

“Cosa devo fare?” Senza rendermene conto, la mia aria di competenza da avvocato in missione è evaporata e anch’io imito le sue alzate di spalle di impotenza. “Cosa devo fare? Tutto è pronto. Come posso aiutarlo se non c’è più?”

“Non può. Vada a casa. Questo è tutto ciò che le resta da fare.”

I viaggi di ritorno in taxi e in aereo si fondono tutti insieme in un prolungato senso di confusione, misto a rabbia, condito dal dolore fisico per aver fatto un viaggio ben oltre la mia resistenza.

“È un brutto scherzo”, borbotto ripetutamente tra me e me mentre faccio oscillare il mio bastone da sinistra a destra. “Questo è davvero un brutto scherzo.”

Pochi giorni dopo sono seduto in chiesa con una trentina di altri uomini per una riunione di follow-up del fine settimana di rinnovamento spirituale di marzo. Hanno tutti sentito la storia della mia serata con Dennis per le strade di Baltimora. Hanno saputo della mia malattia e sono sbalorditi quanto me dal fatto che io sia ancora vivo. Ora condivido con loro il mio dolore, mentre fatico a capire cosa caspita stia facendo Dio.

All’interno delle bianche pareti stuccate nella sala riunioni della nostra chiesa, seduti in cerchio su sedie di plastica, condividiamo a turno le notizie che aggiornano le storie di ciascuna delle nostre vite da marzo in poi. La mia rabbia e frustrazione sono palpabili. Un paio di uomini scivolano fuori dal raggio del mio bastone oscillante per evitare l’impatto diretto dell’uso che ne faccio mentre parlo.

“Perché? Qual era lo scopo di tutto questo stupido esercizio?”

Le mie domande rimangono nell’aria per alcuni minuti prima che uno degli anziani del nostro gruppo prorompa in una risatina. Jim Galbraith, un architetto in pensione, scozzese, cresciuto in un ranch nel Dakota durante la Grande Depressione, ha quel raro dono di essere in grado di ridere così calorosamente che sai che è imbarazzato quanto te, ma sai anche che presto avrai voglia di ridere così anche tu. Ciò che inizia come una risatina si trasforma in una risata di pancia. Non può trattenerla.

“Non capisci, Dale?”, Jim è in piedi e mi circonda con un braccio, forse per fermare la rotazione del mio bastone. “Non lo vedi?”

“Capire cosa? Vedere cosa?”

“Dale, forse Dio non ha portato te nella vita di Dennis per salvare Dennis.”, Jim sta ridendo tanto; riesce a malapena a parlare. “Forse Dio ha portato Dennis nella tua vita per salvare te!

La stanza esplode. Tutti ridono fino alle lacrime.

“Non ho mai pensato a questa possibilità.” L’avvocato che è in me cerca di salvare un po’ di dignità.

“Noi lo sappiamo!” Jim si sta piegando in due mentre si schiaffeggia le ginocchia. “Perciò è così divertente!”

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