Ventitre anni fa l’istituzione della Corte penale internazionale

Vatican News

Adriana Masotti – Città del Vaticano

Genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini di aggressione: sono questi gli ambiti di competenza della Corte penale internazionale. La sua attività è iniziata nel 2002 quando lo Statuto di Roma, stipulato il 17 luglio 1998, definendone nei dettagli la giurisdizione e il funzionamento, ha raggiunto la ratifica da parte del sessantesimo Stato aderente. 124 gli Stati che attualmente ne fanno parte, oltre la metà dei 193 Stati membri dell’Onu. Altri 32 Paesi hanno firmato ma non ratificato il trattato. Fra questi, Israele, Russia, Stati Uniti e Sudan hanno dichiarato di non avere intenzione di ratificarlo. Tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, oltre a Russia e Usa, anche la Cina non ha aderito alla Corte. Sono usciti dalla Corte il Burundi e le Filippine.

Che cosa prevede lo Statuto di Roma 

Il primo imputato dell’organo giudiziario è stato il congolese Thomas Lubanga il cui processo è iniziato il 26 gennaio del 2009. Processi in corso riguardano i presunti responsabili dei crimini commessi nella Repubblica Democratica del Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Uganda, nel Darfur e più di recente in Kenya, in Libia, in Costa d’Avorio, in Mali, in Georgia e in Burundi. La Corte penale internazionale può intervenire solo nel caso che gli Stati non possano o non vogliano agire per punire crimini internazionali. La sua giurisdizione si esercita nel caso di crimini commessi sul territorio di uno Stato parte o da un cittadino di uno Stato parte alla Corte. 

Il cammino verso l’istituzione della Corte penale

Le origini della Corte penale internazionale risalgono al periodo della seconda guerra mondiale, quando vennero istituiti dei tribunali militari internazionali. Il primo fu chiamato a giudicare nel Processo di Norimberga, mentre il secondo era quello del Processo di Tokyo. La campagna per l’istituzione della Corte penale internazionale fu poi rilanciata negli anni novanta da una coalizione di 300 organizzazioni non governative. Nel 1994, l’Assemblea generale dell’Onu istituì un apposito Comitato preparatorio per arrivare ad uno statuto dell’organo penale. Le pressioni da parte delle Nazioni Unite si fecero più pesanti durante il 1993-1994, proprio perché erano stati istituiti dei tribunali ad hoc per la questione di ex-Jugoslavia e Ruanda. Il progetto finale fu affidato ad una Conferenza diplomatica di plenipotenziari, convocati a Roma dal 15 giugno al 17 luglio 1998 che si concluse con l’approvazione dello Statuto con 120 voti favorevoli, 7 contrari, 21 astenuti, e con la firma dell’Atto finale, aperto a tutte le 160 delegazioni partecipanti.

Il contrasto tra la Corte e l’Unione Africana

Da sempre difficile il rapporto tra Stati Uniti e Corte penale internazionale, e complesso anche quello tra alcuni Stati africani a seguito di iniziative della Corte nei confronti dei vertici del Sudan e del Kenya, oggetto di indagini nella prima metà del secondo decennio del XXI secolo. Si sono registrate proteste da parte degli Stati africani. Nel 2016 il Burundi, il Sudafrica e il Gambia hanno annunciato la volontà di recedere dallo Statuto di Roma per negare giurisdizione alla Corte sul loro territorio, ma solo il Burundi, nell’ottobre 2017, ha confermato la decisione di lasciare la Corte.

La visita in Vaticano del presidente della Corte 

Il 5 settembre scorso, il giudice Chile Eboe-Osuji, presidente della Corte Penale Internazionale, ha incontrato Papa Francesco in Vaticano, aggiornandolo, secondo un comunicato della Corte, sugli ultimi sviluppi giudiziari dell’organo penale e sulle sue sfide. Eboe-Osuji avrebbe anche richiamato il tradizionale ruolo della Santa Sede nel “diffondere un messaggio di pace a tutta l’umanità”, un messaggio che, ha detto, “si ritrova fortemente nel mandato della Corte internazionale di ridurre le azioni di guerra e gli effetti devastanti dei conflitti armati attraverso lo Stato di diritto”.

La professoressa Mariangela La Manna è docente di International law alla facoltà di Scienze politiche e assegnista di ricerca in diritto internazionale all’Università Cattolica. 

Ascolta l’intervista a Mariangela La Manna

Professoressa La Manna, nel suo complesso la Corte penale internazionale è un organo che funziona? Quali sono gli ostacoli principali che incontra nella sua attività?

Questa è senz’altro una bella domanda. Che dire? La Corte penale internazionale funziona, ma potrebbe senz’altro funzionare in maniera più efficiente. Innanzi tutto bisogna tenere a mente le regole dettate dallo Statuto di Roma in materia di competenza giurisdizionale della Corte che non è universale, non copre tutte le possibili ipotesi di crimini internazionali che si verificano nel mondo, ma copre in realtà solamente le situazioni che si creano all’interno del territorio di uno Stato che abbia ratificato lo Statuto, oppure ad opera di un cittadino di uno Stato che abbia ratificato lo statuto. Questi criteri lasciano fuori evidentemente una vasta fetta di situazioni di crimini internazionali che si verificano all’interno di territori che appartengono a Stati che non hanno aderito alla Corte, oppure per mano di cittadini di Paesi che non hanno mai ratificato lo Statuto. Tuttavia in queste ipotesi sarebbe comunque possibile, ai sensi dello Statuto stesso, ipotizzare l’intervento della Corte a seguito della segnalazione ad opera del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Questa è un’ipotesi che finora si è verificata in alcune situazioni, per esempio in riferimento alla Libia o con riferimento al Sudan. Ma taluni altri casi non hanno dato luogo ad alcuna segnalazione del Consiglio di sicurezza e mi riferisco soprattutto alla recentissima vicenda che ha interessato la questione siriana che è stata oggetto di veto ad opera prima della Cina e poi della Russia in seno al Consiglio stesso. Questo ha reso di fatto impossibile per la Corte esercitare la propria competenza giurisdizionale su questa situazione così grave. Oltre a questi limiti, diciamo statutari, ci sono dei limiti operativi, degli ostacoli concreti, relativi, per esempio, alla grande distanza che c’è molto spesso fra il luogo dove si celebra il procedimento che è L’Aja e il luogo teatro della vicenda sotto inchiesta. Questo comporta dei costi esorbitanti e dilata a dismisura i tempi del procedimento e molto spesso pone la Corte anche in una posizione di subalternità rispetto alle autorità nazionali rispetto alle quali deve ottenere la collaborazione. Quindi ci sono degli ostacoli di natura proprio pratica, tuttavia questo non vuol dire che non sia un’istanza assolutamente pregevole, utile e che ha ottenuto dei grandi successi.

Non facile il rapporto tra la Corte e alcuni Paesi africani che accusano la Corte di accanimento nei confronti del continente. Perché e quali le conseguenze?

Sì, questo è vero, in realtà i rapporti fra la Corte e l’intero continente africano e in particolare l’Unione africana, l’organizzazione politica regionale che lo rappresenta, sono molto tesi già da molti anni a questa parte. In realtà la prima frizione risale al 2009 all’adozione della Corte penale internazionale di un mandato d’arresto nei confronti dell’allora presidente sudanese in carica Omar Hasan Ahmad al-Bashir. Da allora si sono moltiplicate le occasioni di frizione fra gli Stati del continente africano da un lato e la Corte laddove i primi accusano quest’ultima di un vero e proprio accanimento in un’ottica che ritengono essere neo colonialista, imperialista nei confronti dei propri capi di Stato e di governo. E in effetti un fondamento, almeno statisticamente, questa critica ce l’ha, sono molte, infatti, le ipotesi riguardanti vicende africane che pendono dinanzi alla Corte. Però da qui a lamentare un accanimento esclusivo da parte della Corte nei confronti solamente di Stati africani, forse il passo è troppo lungo e, a ben vedere non ci sono solo questi ultimi. La Corte al momento sta celebrando indagini preliminari su possibili crimini internazionali avvenuti in Colombia, nelle Filippine o ancora in Ucraina, in Georgia e in Afghanistan o addirittura nel territorio palestinese, e questo ci dice che il continente africano non è l’esclusivo oggetto di attenzione da parte della Corte. 

Professoressa La Manna, può citarci le sentenze più importanti emesse finora dalla Corte?

Ce ne sono sicuramente diverse e sono di grande valore tecnico, ma anche simbolico. Tuttavia, credo che ad oggi forse la più significativa da un punto di vista proprio simbolico sia quella del caso Lubanga, la prima sentenza adottata dalla Corte, una sentenza molto articolata e argomentata nella quale si arriva alla condanna per crimini di guerra di un militare congolese della Repubblica Democratica del Congo, Thomas Lubanga, per un gravissimo crimine di guerra che è quello del reclutamento dei bambini soldato, crimine evidentemente connotato da particolare disvalore agli occhi della comunità internazionale. Un’altra sentenza ugualmente importante per la verità da un punto di vista appunto simbolico, potrebbe essere quella del caso di Al Mahdi, un militare jihadista del Mali che è stato condannato per crimini di guerra per la distruzione di alcuni monumenti nella città di Timbuktu, in particolare si trattava di mausolei dell’Islam moderato, e anche questa è una sentenza che ha una grande valenza simbolica.

Tra i processi in corso, su quale la sentenza è più attesa?

Credo che la vicenda che desterà maggiore attenzione nei prossimi mesi sarà quella relativa all’investigazione del caso palestinese, cioè di possibili crimini internazionali commessi nei territori occupati. Credo che sia proprio questa, fra tutte le vicende attualmente pendenti dinanzi alla Corte penale internazionale, quella che avrà la maggiore risonanza a livello non solo scientifico ma evidentemente anche politico.