Alla Biennale Musica, protagonista l’opera di Luigi Nono che esordì nell’84. Un invito a “fare silenzio per imparare ad ascoltare”
Marcello Filotei – Venezia
Cosa ci dice oggi un’opera scritta 40 anni fa? Per trovare una risposta a questa domanda bisognava arrivare fino a Venezia, camminare verso la Chiesa di San Lorenzo, e assistere al nuovo allestimento del Prometeo di Luigi Nono, messo in scena dal 26 al 29 gennaio dall’Archivio storico della Biennale a cento anni dalla nascita dell’autore. Il freddo della laguna, la nebbia, rischiavano di trasformare il quesito in un tarlo. Più ci si avvicinava, infatti, e più il dubbio diventava profondo. Del resto l’opera l’avevamo già ascoltata, ma mai nel luogo per il qual era stata pensata, dove Renzo Piano aveva costruito un’arca in legno per dislocare i musicisti a diverse altezze e ospitare il pubblico al suo interno. «Questi legni, queste pietre-spazi di San Lorenzo, infiniti respiri», scriveva Nono in occasione della prima esecuzione assoluta, mentre metteva a punto gli ultimi dettagli con Massimo Cacciari che ha curato la drammaturgia, con Alvise Vidolin che ha pensato alla regia del suono, e con Roberto Abbado che diresse quella storica esecuzione.
La secentesca chiesa sconsacrata, dalla singolarissima pianta divisa longitudinalmente dall’altare maggiore in due emicicli è sempre la stessa. Non c’è più invece l’arca di Piano, che il Teatro alla Scala, coproduttore della prima edizione, «ha lasciato marcire» secondo le parole di Cacciari. Al posto della costruzione originaria in legno, in questo caso è stata montata una «struttura-ambiente re-immaginata» da Antonello Pocetti e Antonino Viola con le luci di Tommaso Zappon. Un impianto essenziale e aperto che abbraccia il pubblico con una serie di praticabili in collegamento fra loro posti a tre diverse altezze, che come moderne “cantorie” ospitano in punti diversi dello spazio solisti, complessi vocali e strumentali. Al centro Marco Angius, il direttore d’orchestra italiano che più ha diretto e inciso Luigi Nono, che attraverso un sistema di monitor può raggiungere e condurre, coadiuvato da Filippo Perocco, quattro gruppi orchestrali, due ensemble di solisti strumentale e vocale, coro e voci recitanti. Esattamente 79 elementi distribuiti come in un “multispazio” per quell’ascolto pluridirezionale auspicato dal compositore veneziano. Accanto all’Orchestra di Padova e del Veneto tre “reduci” della versione del 1984, Roberto Fabbriciani al flauto, Giancarlo Schiaffini al bassotuba e Vidolin e che è tornato a curare la parte elettronica.
Insomma gli ingredienti c’erano tutti per verificare se questa «tragedia composta di suoni, con la complicità di uno spazio», come la definiva Nono, è un punto di arrivo o un nuovo punto di partenza. Sicuramente l’esperienza fisica è fondamentale, perché seguire un concerto del genere è come ascoltare la musica dall’interno di uno strumento. Ma soprattutto è una esperienza personale, intima. Ci invita a fare silenzio dentro di noi per imparare ad ascoltare. A creare uno spazio dentro di noi per ospitare gli infiniti e continui cambiamenti che ogni suono può avere. Se c’è una cosa che il Prometeo ci aiuta a capire, ancora oggi, è che nulla è immutabile, e che bisogna essere pronti ad accogliere la novità continua come una ricchezza.
Ma queste cose le sanno dire meglio i protagonisti, che abbiamo intervistato e messo in onda in uno Speciale Prometeo che si può ascoltare a questo link.
https://www.vaticannews.va/it/podcast/radio-vaticana-musica/lo-scrigno-musicale/2024/01/lo-scrigno-musicale-31-01-2024.html