Gabriella Ceraso – Città del Vaticano
Un’ esperienza che dà speranza all’Europa. Così in sintesi Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti lungo la rotta balcanica di Ipsìa Acli e Caritas italiana e ambrosiana, ci parla da Bihac, Bosnia Erzegovina, e dai campi profughi della zona dove per tutto il mese di agosto, 50 volontari, in maggioranza studenti universitari e giovani da Padova, Treviso, Trieste e Bologna, stanno trascorrendo una “vacanza soldale” e alternativa nel cuore della “rotta balcanica”. Lavorano al fianco dei volontari con i profughi che si trovano nei campi e nei rifugi di fortuna nei dintorni di Bihac. La stagione estiva non ha segnato la fine dell’emergenza in quella regione e in tanti ancora stanchi, affamati, maltrattati, continuano a mettersi in marcia con il sogno di arrivare in Europa, e di riprovare più volte il “game”, ossia il pericoloso passaggio della frontiera con l’Unione europea.
I ragazzi italiani con loro trascorrono un tempo prezioso per formarsi una idea più chiara di cosa significhi migrare oggi, partecipano ai corsi di lingua e ai progetti che organizzano le forze sul posto composte da volontari di Sant’Egidio in sinergia con il JRS (Jesuit Refugee Service) e Ipsia -Acli. Serve incontrarsi. Conoscersi per maturare un futuro migliore insieme, ci racconta Silvia Maraone:
Come sta andando questa esperienza con i giovani, cosa stanno imparando?
I ragazzi in questi giorni stanno conoscendo persone che vengono da Paesi diversi. Oggi a Lipa ci sono dal Pakistan, dall’Afghanistan, dall’Iraq. Ogni giorno hanno modo di affiancare gli operatori locali, ed è un’occasione speciale. Stanno pochi giorni ma stanno vivendo intensamente e stanno dando molto. A tutti fa piacere conoscere questi giovani che da qui racconteranno al loro rientro quanto hanno visto e imparato, e questo serve. Serve parlarne perché la rotta balcanica è dimenticata ma tutt’altro che inattiva. La stagione estiva non ha segnato la fine qui dell’emergenza.
Quale è la condizione oggi dei campi e c’è qualche timore sui riflessi, nell’area, di quanto sta accadendo in Afghanistan?
La rotta balcanica è una rotta fantasma. Se ne parla poco, dal 2015 quando c’è stata la crisi siriana. Eppure continua ad essere attiva e percorsa da uomini, bambini non accompagnati, famiglie. Una umanità intera che si sposta dall’Asia e dal Medio Oriente e che deve far fronte a difficoltà enormi, passare da un campo all’altro ed entrare in una sorta di limbo di attesa. Esistenze buttate via per anni, con problemi logistici ed effetti psicologici devastanti. E temiamo che quanto accade ora in Afghanistan peggiori la situazione in questa area perchè arriverà probabilmente un’altra ondata di persone e i Balcani non sono pronti. Per cui la presenza di volontari qui è basilare per dare supporto alle forze locali.
Migrazione e integrazione, voi ci tenete molto anche con questi ragazzi della Scuola estiva. Per questo li coinvolgete anche nei corsi di lingua, attraverso i quali non passa solo cultura, vero?
Passa l’amicizia e la relazione che è il valore che cerchiamo di portare nei campi. Abbiamo a nostra volta dei corsi di lingua italiana e inglese e devo dire che molti vogliono imparare l’italiano perche sognano di venire in Italia. Offriamo dunque strumenti ma soprattutto vogliamo offrire un rapporto, perchè queste persone in viaggio perdono le loro identità, sono trasformati in numeri in fila per un pasto. Non vengono ascoltate veramente. E allora le nostre attività qui servono proprio a restituire dignità ad un contesto che l’ha persa.
Guardando i flussi umani dall’Afghanistan, cosa ti viene in mente? Più timore o speranza?
Sono anni che lavoro su questa rotta e ho visto i grandi flussi del 2015 e poi le spicciolate degli anni successivi: dico sempre a chi incontro che non si deve perdere la speranza perché tanti ce l’hanno fatta, hanno lasciato i campi. Certo poi occorre superare l’ostacolo più difficile, quello di ricostruire una vita nei Paesi di arrivo. I miei timori anche ora, riguardano gli standard di dignità della vita nel corso delle emergenze. Quando c’è stata la crisi migratoria in Grecia i campi erano diventati luoghi invivibili, insicuri per donne e bambini e questo non può accadere. Bisogna far fronte a questa eventualità. Purtroppo un mese fa un ragazzo del Pakistan si è tolto la vita a Lipa e non è la prima volta: aveva perso la speranza in una vita migliore. Sono epiloghi tragici che possono essere evitati solo con una nuova politica di accoglienza e integrazione fruibile e veloce.
Accogliendo i ragazzi della Scuola, state in qualche modo formando i giovani dell’Europa del futuro. Quale è il vostro sguardo sulle giovani generazioni?
Io vedo ragazzi e ragazze che hanno voglia di cambiare, che sono contrari ai muri e ai respingimenti. E credo che più si conosce da vicino la realtà migratoria, come stanno facendo loro questa estate, più si avranno attori di un cambiamento in meglio. La mia speranza è che questi ragazzi possano imparare a indignarsi di fronte alle ingiustizie e a far sentire le loro voci a partire dalle loro realtà locali, perchè i cambiamenti partono dal piccolo e poi raggiungono grandi livelli. Se a partire da casa nostra portiamo modelli diversi di apertura e accoglienza penso che possano esserci ancora speranze in un futuro migliore.