ANDREA TORNIELLI
È stato il primo appuntamento del viaggio: nelle prime parole pronunciate da Francesco in terra canadese è già contenuto il cuore del suo messaggio e le ragioni che lo hanno portato fino a qui, nonostante gli ancora evidenti problemi di deambulazione. Dopo aver pregato silenziosamente nel cimitero delle popolazioni indigene di Maskwacis, nella chiesa della Madonna dei sette dolori il Papa ha parlato nel Bear Park Pow-Wow Grounds, di fronte a una delegazione di capi indigeni provenienti da tutto il Paese.
“Sono qui – ha detto – perché il primo passo di questo pellegrinaggio penitenziale in mezzo a voi è quello di rinnovarvi la richiesta di perdono e di dirvi, di tutto cuore, che sono profondamente addolorato: chiedo perdono per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni. Sono addolorato. Chiedo perdono, in particolare, per i modi in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche attraverso l’indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell’epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali”.
Erano scuole volute e finanziate dal governo, ma molte di loro erano gestite dalle Chiese cristiane. E migliaia di bambini, strappati alle loro famiglie, hanno subito in esse “abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali”. Molti vi hanno trovato la morte, per scarsa igiene e malattie.
C’è un giudizio inequivocabile nelle parole del Vescovo di Roma, accolto dai popoli originari che tanto lo hanno atteso: “Quello che la fede cristiana ci dice è che si è trattato di un errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo”. Anche al tempo del colonialismo vero e proprio, come pure successivamente, quando la mentalità coloniale ha continuato a influire in politiche e atteggiamenti dei quali le scuole residenziali sono state un esempio, era possibile comprendere quale fosse la via evangelica. Anche in quel tempo, nonostante i condizionamenti storici e culturali, era possibile discernere, comprendere che le tradizioni degli indigeni andavano accolte, non annientate; che la fede andava proposta all’interno delle diverse culture indigene e non imposta distruggendole.
Le violenze di cui i cristiani sono stati responsabili lungo i secoli sono già state tutte giudicate dalla testimonianza di Gesù, che ha insegnato ad amare non ad odiare, ed è rimasto inerme sulla croce come vittima innocente, condividendo il dolore di tutte le vittime della storia. Anche all’epoca in cui la distruzione culturale e l’assimilazione sono stati commessi, era dunque possibile un atteggiamento diverso: basti soltanto pensare agli antichi esempi di evangelizzazione rispettosa delle culture originarie, testimoniati dalle “reducciones” in Paraguay o all’atteggiamento di padre Matteo Ricci in Cina. Per questo è giusto chiedere perdono, e farlo – come ci mostra il Papa – con un atteggiamento di umiltà e di ascolto, nella consapevolezza che ci sono ferite per rimarginare le quali non bastano secoli, come dimostrano le parole dei popoli originari del Canada.
Certo, sarebbe un errore non guardare anche al bene che hanno silenziosamente compiuto tanti missionari e missionarie lungo i secoli in queste terre. Ma l’unica vera risposta cristiana a quanto accaduto non è quella dei distinguo o dell’analisi storica. Di fronte a chi afferma di portare ancora vivo nella propria carne il dolore per quanto accaduto, chi ha perso i propri cari senza nemmeno sapere dove sono stati sepolti, si può rimanere soltanto in silenzio, pregando, ascoltando, abbracciando e chiedendo perdono. Come l’anziano Pontefice in sedia a rotelle ci sta insegnando.