“Un Ponte per” riflette sul “mosaico iracheno” a un mese dalla visita del Papa

Vatican News

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Un mese fa lo storico viaggio apostolico di Francesco in Iraq. Il Pontefice sfidava pandemia e insicurezza portando una ventata di speranza in un Paese ferito da conflitti, fanatismi, crisi economica. Ora la sfida è nelle mani della comunità internazionale, degli attori politici locali, delle comunità di base. Per continuare a tenere accesi i riflettori sull’area mediorientale visitata per la prima volta da un Papa, l’associazione Un Ponte per organizza per questa sera alle 18 la conferenza online “Il mosaico iracheno”. Partecipano giornalisti (Laura Silvia Battaglia – Radio RaiTre, Massimiliano Menichetti – Radio Vaticana Vatican News), religiosi (padre Jens Petzold – Comunità monastica di Mar Mousa a Sulaymania), operatori delle Ong e della società civile (Eleonora Biasi – Capo Missione Upp in Iraq). Martina Pignatti Morano, direttrice dei programmi di cooperazione di Un Ponte per e moderatrice del dibattito, si sofferma sul valore della presenza del Papa in questa area del mondo.

Ascolta l’intervista a Martina Pignatti Morano

R. – La visita del Papa è stata un grande evento storico di portata politica, antropologica e, ovviamente, spirituale. Sicuramente ha lasciato il desiderio nella popolazione irachena a lavorare con ancora più determinazione per la tolleranza, la coesistenza e ha dato una grande forza alle minoranze, accendendo i riflettori da parte delle maggioranze sulla possibilità per le minoranze di dare un messaggio di speranze.

La visita del Papa è stata un’occasione per rilanciare un nuovo patto per la fratellanza e la solidarietà. Che margini ci sono nel Paese che un Un Ponte per sostiene da trent’anni?

R. – C’è molto da fare. La comunità internazionale non ha avuto finora un ruolo particolarmente costruttivo, tant’è che i contrasti tra Usa e Iran si manifestano sul territorio iracheno. La popolazione è un po’ ostaggio di queste forze, ricordiamolo. Tra l’altro, la coalizione internazionale ha partecipato in modo importante alla battaglia militare contro il sedicente Stato Islamico, che è stato più o meno sconfitto militarmente ma ancora un milione e 200 mila sfollati interni ci sono nel Paese. E non riescono a tornare nelle aree ormai liberate, perché non c’è stata la ricostruzione. La sicurezza ancora non c’è. Quindi ci sarebbe bisogno di un impegno più attivo sul fronte degli investimenti civili che invece tardano ad arrivare. In questo contesto il Papa è stato il primo esponente della comunità internazionale, di una certa rilevanza politica, che ha visitato il Paese e che veniva a portare un messaggio di pace, ascolto e rispetto. Tra l’altro, è incoraggiante vedere che il primo ministro abbia deciso, dopo questa visita, di nominare il 6 marzo “Giornata nazionale per la tolleranza e la coesistenza”. E’ il giorno in cui c’è stato l’incontro tra Papa Francesco e l’ayatollah Al Sistani a Najaf. Sono segnali di riconciliazione, della voglia che c’è di immaginare un futuro di coesistenza, mentre le sfide sul terreno sono ancora moltissime perché appunto gli investimenti politici ed economici sono ancora prevalenti nel settore della sicurezza militare invece che su quello dello sviluppo, del peace building e del sostegno umanitario.

Il Papa ha incoraggiato molto, soprattutto le nuove generazioni, a trovare i motivi per restare nel Paese e motivi per tornarci. Sappiamo che molti non si sentono più attratti da questa realtà che ai loro occhi offre un futuro troppo precario. Voi che strade portate avanti sotto questo profilo?

R. – Come Ong italiana portiamo avanti di generazione di posti di lavoro per i giovani anche con progetti innovativi, come l’eco-turismo nelle zone del Kurdistan iracheno, che è bellissima dal punto di vista naturalistico, oppure nelle paludi mesopotamiche dove stiamo costruendo un villaggio progettato da architetti e costruito dalle comunità locali. Sono tante le possibilità anche per i giovani locali di lavorare come operatori sociali nella difesa delle donne dalla violenza di genere. C’è bisogno di più fondi, da questo punto di vista, per dare lavoro perché il futuro delle giovani generazioni è molto legato anche alle possibilità di sostenibilità economica della loro vita in loco. Ricordiamoci che tanti giovani, alla fine, se si fanno reclutare dalle milizie, è principalmente per motivi economici, il motivo ideologico viene in seconda, in terza battuta. Poi è chiaro che questi gruppi esercitano un forte condizionamento sui ragazzi iracheni, ma il problema principale rimane il problema economico. Noi comunque vediamo anche dei ragazzi iracheni, per esempio, che grazie sempre al sostegno di Un Ponte per hanno la possibilità di accedere a borse di studio internazionali, ad esempio con il collegio del mondo unito, poi potrebbero benissimo avere borse di studio per gli Stati Uniti e andare all’università là, invece rientrano in Iraq. Ricordo benissimo che hanno fatto questa scelta alcuni, proprio in concomitanza con la presenza di Papa Francesco in Iraq.
 

Un ricordo di quelle giornate in cui lei era in missione nel Paese del Golfo…

R. – Grande emozione. Ricordo con stupore il numero di iracheni musulmani che si avvicendarono lungo le strade percorsi da Papa Francesco, aspettando per ore per poterlo salutare. Questo ha sorpreso gli stessi cristiani in Iraq. E poi è stato emozionante quando nello stadio di Erbil, durante la Messa celebrata da Papa Francesco, lui ha scelto di recitare il Padre Nostro in aramaico assieme ai sacerdoti locali. E’ stata una bella scelta di valorizzazione delle minoranze linguistiche, oltre che religiose, e un bel messaggio di speranza con cui ha salutato la comunità cristiana irachena. Momenti molto sentiti che ci porteremo nel cuore.

Quindi, in sintesi, almeno nel medio periodo quali potranno essere per la popolazione irachena i frutti di questa visita straordinaria?

R. – Per le minoranze religiose in Iraq il Papa ha dato molta forza a chi cerca di fare scelte di apertura verso il resto della popolazione irachena. Quindi speriamo che le comunità si sentano sempre più in grado di rafforzare la propria presenza, la propria sicurezza in Iraq tramite il processo politico e non, ad esempio, creando delle milizie ad autodifesa che poi contribuiscono solo a una escalation del conflitto armato. E speriamo soprattutto che le forze politiche irachene di facciano carico della protezione, della reputazione e della conoscenza della diversità culturale e religiosa che c’è in Iraq. Noi lavoriamo anche con gli educatori per i programmi scolastici affinché vengano introdotti degli approfondimenti sulle minoranze culturali, etniche e religiose: questo deve essere un po’ un programma di lavoro sulla riconciliazione, su cui il Papa ha sicuramente posto una pietra di appoggio molto importante.